LO STRESS, LA LUCIDITÀ

Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrante, imprenditore

Intervista di Sergio Dalla Val

Lungi dall’essere un’entità immutabile, l’impresa di ciascuno si trova in una trasformazione incessante, quasi in un viaggio di cui temiamo di perdere la direzione. Quale cervello, quale dispositivo per questo viaggio?

 

Occorre che in nessun modo e in nessun istante noi siamo tratti dall’indifferenza che è la suprema forma d’euforia, quella che preclude il viaggio stesso. Con l’euforia noi siamo, non facciamo, non viaggiamo. Con l’euforia siamo oltre il viaggio, siamo tanto al di là del viaggio da essere indifferenti, tanto indifferenti da essere euforici, tanto euforici da ritenerci vittime o padroni. Insisto intorno a quella che è la constatazione da cui discendono poi molti teoremi: il fantasma di morte è il fantasma di padronanza. Immaginarsi vittima non sfugge questo fantasma, è il suo culmine.

Noi mai potremo, lungo la ricerca, lungo il fare, ritrovare la direzione se noi speriamo o ci promettiamo di giungere all’approdo. La nostra tranquillità è anche questa: facendo e rischiando noi siamo sicuri di giungere all’approdo.

 

Non è facile che ci sia tranquillità ai vertici dell’impresa. Del resto, la Fondazione Verdiglione tiene a maggio, un congresso internazionale dal titolo Stress. La clinica della vita…

 

Stress. Non c’è significante che abbia riscosso maggiore successo in ogni mitologia, per esempio nella mitologia medica e nella psicologia, ma anche nel modo comune di dire. Com’è che lo stress è diventato il luogo comune di ciò che nega il viaggio, il luogo comune dell’assenza d’intellettualità del viaggio?

Lo stress è la domanda, la pulsione in atto, la forza, lo sforzo; la virtù, la chiama Machiavelli. Lo stress è la domanda e la domanda è il dispositivo di parola. Lo statuto intellettuale è già nella domanda. La particolarità della parola è ciò secondo cui la domanda si enuncia, e si enuncia in modo aritmetico. Osiamo ancora: la domanda è l’aritmetica della vita. È chiaro che noi non possiamo dare della vita nessuna contabilità. Non c’è contabilità del fare, non c’è contabilità di ciò che si fa secondo l’occorrenza, di ciò che si fa perché si racconta. La contabilità è l’attribuzione dello sbaglio, che è proprietà della sintassi, all’Altro ed anche l’attribuzione della menzogna, che è proprietà della frase, all’Altro. La contabilità non farebbe se non l’economia di questo sbaglio e di questa menzogna. La contabilità è assolutamente lontana dall’aritmetica, procede dall’armonia sociale.

Che cosa non viene fatto contro lo stress? Quante pene non vengono inflitte per combattere lo stress, per combattere la domanda, l’annunciazione, il viaggio, per dare la cronologia del viaggio? La psicofarmacologia è il volto generale della cronologia. Noi non possiamo accettare l’idea di una confisca della parola, noi non accettiamo l’idea di prigione della parola. Noi non accettiamo che ci sia qualche tratto del nostro viaggio che non sia libero. Questa è la non accettazione intellettuale della morte bianca, della nostra idea di morte, del modo nostro d’immaginarci.

 

Sospeso tra devastanti incertezze e comode verità, con quali criteri il capitano dell’impresa può trovare la necessaria lucidità?

 

La luce, ovvero le cose s’intendono scrivendosi. Quali cose? Le cose che si fanno secondo l’occorrenza. La lucidità: le cose che s’intendono giungono al compimento. Quando, come e perché la luce viene negata? Il concetto stesso d’illuminazione è il concetto di negazione della luce, è un’illuminazione senza la luce. È illuminazione perché non c’è più la luce. Com’è avvenuto che la lucidità, invece, è diventata il segno del purismo finanziario, il segno dell’algebra del fare o della geometria del fare? Com’è avvenuto che la lucidità è diventata il segno del cannibalismo bianco o il segno del razzismo? L’esperienza è in atto, mai dunque passata, mai ci fondiamo sull’esperienza. L’esperienza è secondo la sua fondazione, secondo la sua particolarità. L’esperienza non si fonda sull’esperienza, è esperienza in atto; così la memoria è in atto, non è mai passata, non è mai memoria del passato. Facendo, quindi, con il ragionamento e anzitutto con la memoria attraverso il racconto, quindi attraverso il sogno e la dimenticanza, l’esperienza giunge alla lucidità.

 

Curioso che il significante lucidità sia stato attribuito alla pazzia o all’alcolismo o alla psicofarmacologia o a qualsiasi altra forma di assunzione della sostanza, della droga…

 

La pazzia, per quanto attiene al fare, è l’idea che il fare dipenda dal volere, dal sapere, dal potere, dal dovere. La pazzia è soltanto l’idea che in qualche tratto della vita noi finalmente faremo quello che vogliamo, cioè finalmente noi saremo pazzi. Ma è già questa la pazzia, in altre parole, è fare l’algebra.

Lucidus ordo. La lucidità non è proprietà dell’ordine, ma è proprietà della strategia, quindi, dell’arte della piegatura e della cultura della piegatura delle cose. Le cose si piegano e, quindi, si scrivono, s’intendono – sta qui la luce – e così giungono a compimento. Che le cose giungano a compimento è questione di lucidità.

Tanti discutono di strategia soltanto con l’algebra del fare, con la geometria del fare, applicando la storia alle cose che sono da fare, al programma. Non si possono applicare la storia o la ricerca al programma. Tanti discutono di strategia senza lucidità. Il labirinto e il filo del crepuscolo, senza l’idea di circolo e di linea, hanno un accesso che è solo intellettuale, in altri termini, sono “normalmente” inaccessibili. Ciascuno di noi ha da trovare in questo nostro viaggio il suo modo di compiere il restauro, cioè la restitutio in cifra. Ciascuno ha da compiere il suo approdo alla qualità e ciascuno, dunque, ha da fornire il suo apporto, il suo contributo intellettuale. Ciascuno è, dunque, statuto intellettuale e ciascuno di noi è convocato a questa produzione perché le cose concludano alla cifra. Allora, forse, la lucidità non è più un detersivo morale o legale o penale.