CODICE ETICO O STILE?

Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, presidente di SITI-B&T Group S.p.A.

Alcuni fra i più importanti produttori di piastrelle in ceramica di tutto il mondo, in particolare di paesi in cui avete stabilimenti, come Brasile, Cina, Italia, Messico, Russia e Spagna, possono vantare di avere acquistato la loro fabbrica chiavi in mano da una realtà come la vostra, che contribuisce allo sviluppo delle più avanzate tecnologie produttive del settore. Grazie a un vostro nuovo impianto acquistato di recente, la ceramica Varsina (Egitto) raggiungerà un potenziale giornaliero di 40.000 metri quadrati, proiettandosi così tra i maggiori produttori ceramici del mercato egiziano. Quali sono stati i fattori alla base dell’affermazione sul mercato nazionale e internazionale del vostro Gruppo in cinquant’anni di attività?

Quello che oggi molte aziende chiamano codice etico per me si è sempre chiamato stile, che vuol dire soprattutto serietà, puntualità, lealtà e sacrificio, se occorre, pur di rispettare gli impegni assunti. Questo è il primo fattore alla base della fiducia che abbiamo conquistato presso i clienti in Italia e all’estero e per questo molti dei nostri clienti sono anche nostri amici. Per dare un’idea dell’importanza dello stile, ricordo che trent’anni fa, quando abbiamo avviato il processo d’internazionalizzazione, il grande spauracchio per i clienti esteri era la distanza, che avrebbe potuto comportare una carenza nell’assistenza: non si trattava più di vendere soltanto una macchina, ma un intero impianto per la fase terminale di movimentazione e stoccaggio del prodotto, con tutta la complessità delle sue componenti elettroniche, meccaniche e idrauliche. La vendita in Spagna del primo impianto di stoccaggio per 745 milioni di lire si è conclusa anche e soprattutto in virtù dell’impegno che abbiamo assunto di allestire, prima che venisse avviata l’azienda del cliente, un magazzino ricambi con personale tecnico reperibile 24 ore su 24. Questa è stata la nostra carta vincente e, tuttora, nonostante in Spagna il mercato in generale abbia difficoltà indescrivibili, godiamo di un’immagine tale di serietà e puntualità nell’assistenza e nei ricambi che i nostri fatturati raggiungono risultati straordinari. È anche vero che in tanti anni abbiamo aiutato i nostri clienti a crescere dal punto di vista tecnologico, dando consigli disinteressati, a volte addirittura contro il nostro interesse, ma il tempo ci ha dato ragione della nostra politica di apertura. 

Quando nel 1961 lei e il suo socio Ermer Barbieri avete incominciato l’attività, era un’epoca in cui i sacrifici non si facevano attendere…

In realtà i sacrifici e l’impegno sono incominciati ancora prima: per prendere il diploma all’Istituto “Corni” di Modena, viaggiavamo in bicicletta da Formigine, con la neve o sotto il sole cocente, ma erano valori che facevano parte della nostra educazione e dell’ambiente in cui vivevamo, che sapeva dare fiducia a chi la meritava. Per esempio, molti come noi, per reperire le risorse economiche necessarie per avviare l’attività, si rivolgevano ai privati: c’era un sistema di credito parallelo alle banche, sorretto da aziende fornitrici come la Lasa di Stefano Antichi, che ricordo sempre con piacere; ci teneva a dire che non aveva mai perso un soldo, perché all’epoca c’era grande lealtà e senso dell’impegno. 

La parola era sacra…

Ma voglio sottolineare che, mentre io sono stato ripagato di tutti i sacrifici, attraverso le soddisfazioni, per fortuna molto maggiori delle delusioni, devo essere grato a mia moglie e ai miei figli, che hanno pagato il prezzo del successo quasi quanto me, raccogliendo solo indirettamente i riconoscimenti arrivati in questi anni. 

Nel corso degli anni, il vostro Gruppo ha acquisito aziende come la Sir e altre eccellenze del made in Italy, sempre seguendo la logica dell’integrazione, mai quella dell’omologazione, per lasciare a ciascuna la propria specificità. Forse, il vostro è un esempio di rete che funziona…

In Italia non c’è la cultura della rete e, per aumentare le dimensioni, le aziende devono fare parte di un gruppo. Si dice che la crisi si batte con la ricerca, ma come può fare ricerca un’azienda con meno di quaranta dipendenti? Caratteristica che in Italia riguarda almeno il settanta per cento delle aziende, molte delle quali sono subfornitrici, quindi lavorano su commissione, ma anche chi ha un prodotto proprio deve combattere con tutto il mondo per metterlo sul mercato. Sono stato fondatore e primo presidente della CNA di Formigine, nonché dell’ACIMAC, quindi credo nell’aggregazione, ma se le aziende rimangono piccole, l’aggregazione non basta. Per esempio, non è facile per una piccola azienda partecipare a un bando regionale, perché contiene troppi sbarramenti in entrata: spesso è richiesta l’assunzione del cinquanta per cento del personale dedicato alla ricerca e la trasformazione dei contratti da precari a tempo indeterminato. Anche fare innovazione risulta quasi impossibile per le piccole imprese, a meno che non si definisca innovazione la normale evoluzione di un prodotto: se aumento le dimensioni di un forno, per esempio, non posso dire di avere introdotto un’innovazione; diverso è se invento un sistema di combustione che risparmia significativamente combustibile e riduce le emissioni in atmosfera.