LE FIBRE DI CARBONIO NEL RINFORZO DI STRUTTURE IN CEMENTO ARMATO

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docente di Scienza delle Costruzioni, Università di Modena e Reggio Emilia

La collaborazione del Dipartimento d’Ingegneria “Enzo Ferrari” dell’Università di Modena e Reggio Emilia, sia con Ardea Progetti e Sistemi Srl, sia con il titolare, Lino Antonio Credali – che per diversi anni ha tenuto l’insegnamento di Tecnologie dei Materiali Compositi nel nostro Ateneo –, è un esempio di scambio proficuo fra università e impresa, di cui l’intervento di Elena Fabbri offre una valida testimonianza. 

Nel mio intervento parlerò in particolare dell’uso delle fibre di carbonio nel rinforzo di strutture in cemento armato. Ma prima vorrei riportare alcuni dati tratti dai 39.500 sopralluoghi di agibilità effettuati nelle zone colpite dal sisma, a cui hanno partecipato anche le università e gli ordini professionali. Con l’uso delle schede AeDES, gli edifici sono stati catalogati in sei classi: A (edifici agibili), B (edifici temporaneamente inagibili, ma che richiedono opere di pronto intervento), C (edifici temporaneamente inagibili che richiedono interventi strutturali consistenti), D (edifici in cui sono necessari ulteriori sopralluoghi, da parte di tecnici specializzati), E (edifici decisamente inagibili) e F (edifici inagibili per rischi esterni). I danni hanno interessato per due terzi la provincia di Modena, che annovera 23.886 schede, di cui ben 8.863 in esito E. All’interno della provincia di Modena, Mirandola è il comune che ha pagato il prezzo più alto, con 4393 edifici inagibili, di cui 1496 in scheda E. 

Dopo questa premessa, veniamo alle tecniche d’intervento e alle normative riguardanti le strutture in cemento armato. L’intervento su un edificio in cemento armato può essere richiesto da un degrado della struttura, con diminuzione della capacità portante, da un aumento dei carichi, anche per un semplice cambiamento della destinazione d’uso, o in seguito a eventi sismici che richiedono rinforzi localizzati. Un tipico intervento strutturale di rinforzo, che si è sviluppato nel tempo, è il cosiddetto “placcaggio”, in cui vengono incollate lamiere d’acciaio sulla parte esterna di strutture in cemento armato. Un’altra tecnica, impiegata prevalentemente per i pilastri, consiste nel ricoprire l’elemento da rinforzare con paratine in cemento armato. In seguito, il settore è stato rivoluzionato dall’uso di materiali compositi fibrorinforzati, che hanno avuto un grande successo grazie ai vantaggi che offrono: elevatissima resistenza a trazione, flessibilità d’uso, assenza di corrosione, leggerezza, facilità di trasporto e aumento della sicurezza nei cantieri, dove è preferibile maneggiare nastri in fibra di carbonio piuttosto che barre d’acciaio. 

Alla rapidissima evoluzione dei materiali e delle tecniche applicative, però, non ha fatto seguito un adeguamento altrettanto rapido delle normative, che rimangono datate, anche in ambito internazionale. Pertanto, a volte si rischia di ridurre le potenzialità eccezionali dei materiali compositi – pensiamo alla resistenza a trazione delle fibre di carbonio, che arrivano a 48.000 kg/cm2 – semplicemente perché non esistono norme che regolamentino la loro applicazione.

Ecco perché vorrei fare alcune raccomandazioni ai professionisti che si cimentano in una struttura da consolidare con le fibre di carbonio: è assolutamente necessario procedere a uno sgravio dei carichi, togliere tutto ciò che è possibile, perché, con l’aggiunta delle fibre, si va ad agire su una differenza di deformazione, in quanto la struttura è inizialmente già deformata, quindi, per eseguire un efficace rinforzo, occorre scaricarla. E non bisogna limitarsi a spostare il mobilio, ma occorre rimuovere i carichi permanenti portati, ovvero gli intonaci, i pavimenti, etc. Se non è possibile questa opera di alleggerimento, è meglio prevedere un sistema di spostamenti impressi. 

Prima di qualsiasi intervento, occorre demolire il calcestruzzo ammalorato, portando via il copriferro e lasciando la parte sana della sezione. Poi si prosegue con l’idrolavaggio delle superfici e, se permangono ancora ossidi, ci si avvale anche della spazzola metallica. L’importante è rimuovere qualsiasi tipo di polvere, che comprometterebbe l’aderenza degli altri strati, ricostituire il copriferro e fare un trattamento superficiale con stucco epossidico, allo scopo di livellare la superficie, un’applicazione del primer e apporre il primo strato di resina epossidica per l’incollaggio dei nastri, ponendo sempre attenzione alle adeguate grammature dei nastri da applicare. Si procede poi con un secondo strato di resina e di nastri e così via fino a ottenere il necessario multistrato. È molto importante evitare gli spigoli vivi, perché in essi si formano concentrazioni di tensione e, tra l’altro, essi rappresentano una possibile fonte di distacchi successivi. Per questi motivi, se si agisce sui pilastri, occorre sempre prima smussarli. 

Infine, non bisogna dimenticare, tra le verifiche allo stato limite ultimo, la cosiddetta “delaminazione”. Ci sono quattro meccanismi di crisi per delaminazione: una di estremità (peeling), una intermedia (da fessure di flessione), una da fessure diagonali da taglio e una delaminazione da irregolarità superficiali e rugosità del calcestruzzo. Per queste e altre verifiche si può fare riferimento alle Istruzioni CNR DT 200/2004 e ai relativi aggiornamenti. 

**Il testo di Angelo Marcello Tarantino è tratto dal suo intervento al convegno La forza della leggerezza (Mirandola, 18 settembre 2012, organizzato da Ardea Progetti e Sistemi, Bologna)