IL VINO NELLA FILOSOFIA E NELLA STORIA

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già professore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

La questione è molto antica, nasce da una vicenda le cui radici si perdono nella notte dei tempi e che ha dato luogo a una serie di miti, di racconti e di trasfigurazioni, che ruotano soprattutto intorno alla figura emblematica di Dioniso. Attraverso le vicende del vino possiamo leggere una complessa storia di civilizzazione. C’è una fase dello sviluppo della cultura umana, soprattutto nel Medio Oriente, che ha attraversato secoli, si è via via consolidata e ha scoperto – attraverso un procedimento sicuramente non semplice – un prodotto eccezionale, la cui forza inebriante deve avere sconvolto parecchio i costumi dell’umanità primitiva, se si può definire tale, considerando che ci sono antichità ben più remote. Questa antichità più vicina a noi è la testimonianza di una capacità d’intervento nella natura con l’agricoltura, quindi di una fase neolitica, succeduta a quella della caccia, in cui l’economia fondamentale è diventata l’allevamento del bestiame e la capacità di trasformare i prodotti della terra. Tra questi prodotti, compare un liquore inebriante che caratterizza proprio la civiltà mediterranea. Da qui, l’idea che i Greci ebbero – e che trasfigurarono nella loro fantasia fabulistica – di un dio che veniva da fuori e che trasformava completamente i costumi delle città greche. Un dio la cui origine è stata variamente collocata nel nord o nel sud: era il dio dai riccioli biondi che veniva dalla Tracia, secondo una leggenda, mentre, secondo un’altra, era il dio che veniva dalla più antica terra della tradizione greca, ossia da Creta. Probabilmente, sono vere entrambe le leggende, perché ancora oggi abbiamo l’uva bianca e l’uva nera. Ma ciò che caratterizza questi racconti – che poi troveranno una loro interpretazione formidabile in Nietzsche – è l’intuizione di una divinità, la quale, pur rappresentando un’attività umana, viene percepita come sconvolgente e proveniente da altrove. Non è affatto detto che questo dio provenisse da altrove, anzi, le più recenti indagini paleografiche, paleologiche e filologiche tendono a collocarlo in un’antichità greca, se non già pre-ellenica. Probabilmente, veniva sentito come il dio di una trasfigurazione, di una trasformazione, che aveva il potere, per dir così, di sospendere le regole normali della vita comune. Allora, si potrebbe immaginare che questo dio fosse la reviviscenza, l’eco, in tempi più civili e più complessi, dell’antica orgia primitiva, del momento primitivo del sacro, in cui la comunità si riconosceva in una sorta di abbandono delle distinzioni socialmente limitanti gli impulsi, gli istinti, per ritrovarsi in uno sfrenato ritorno all’unità animale, per dir così, in cui si lasciano sfogare gli istinti primordiali, vissuti come sacralità della vita che si rinnova e come consanguineità del gruppo. È evidente che il gruppo originario aveva bisogno di rinforzarsi nella sua unità, di tempo in tempo, per non disperdersi. Oggi siamo tutti dispersi: i giovani ritrovano una qualche unità nei concerti rock, stando a quanto dicono gli antropologi, che hanno esaminato questi eventi in maniera profonda. Ma l’intuizione di Nietzsche, che vede in Dioniso l’eco di un mondo primordiale, sacrale che rimette in discussione tutto almeno per un giorno – pensiamo al Carnevale come ultima propaggine di tutto ciò –, questa idea che ci sia una cesura nel ritorno ciclico della vita nella natura, nella coltivazione, nella società, e che ci siano queste necessarie feste dell’inebriata gioia di vivere, che ritroviamo nell’intuizione del filosofo tedesco, riceve conforto dalla scoperta di Granet che le stesse cose avvenivano nella Cina arcaica. Anche i contadini della Cina arcaica celebravano le feste di primavera e di autunno, che erano orge controllate, attraverso le quali i giovani dei villaggi dispersi, per la prima volta, s’incontravano e, in pratica, si fidanzavano e si sposavano. E anche loro, certamente, erano aiutati, se non dal vino, da altre bevande eccitanti. Da qui, la grande intuizione nicciana della necessità, per la società umana, di due forze in dialettico equilibrio: da un lato, l’ordine apollineo, la forma, la decenza, il decoro, la regola e la sottomissione alla regola, la cosiddetta sobrietà, dall’altro, l’ebbrezza. Queste due forze devono stare in equilibrio, perché la società si nutre di entrambe, anzi, l’una è il contrasto dell’altra, l’altro volto. L’intuizione nicciana è molto bella: in effetti, Apollo e Dioniso sono la stessa personalità, guardata da due prospettive differenti. Da qui l’idea secondo cui la società arcaica dei Greci era, essenzialmente, più civile della società platonica, della società moralistica di Socrate, che condannava gli impulsi sessuali e mortificava la vita in nome del potere. Anziché un’esaltazione della vita, il potere finiva per esserne una mortificazione, anche secondo un’intuizione di Wagner, che conosceva molto bene queste cose ed era entusiasta di Nietzsche che gliele raccontava. Per cui, nel suo famoso Wort-Ton-Drama L’Anello del Nibelungo, viene posta un’alternativa: chi s’impadronisce dell’oro – i nani o, successivamente, i giganti – deve rinunciare all’amore. Siamo dinanzi a una civiltà della decadenza che finisce nel Valhalla, nell’incendio della ragione: la ragione va in fumo, per dir così. Nietzsche è certamente collaboratore di questa visione, che trae dai Greci, ma oggi possiamo andare oltre, anche grazie all’analisi di Giorgio Colli. Filosoficamente, Nietzsche aveva le sue ragioni per criticare la società occidentale in quanto mortificante già nel moralismo greco e romano e, ancor di più, nella sintesi dei cristiani. Ovviamente, parliamo di un cristianesimo che si è reso sociale, mentre il cristianesimo è anch’esso dionisiaco: nella figura di Cristo, il dio che viene mangiato nell’eucaristia, ritroviamo esattamente la storia di Dioniso, il dio che viene ucciso e mangiato dai Titani, poi fatto rinascere da Apollo. Ma Colli ci dice che Nietzsche sbagliava quando considerava la festa dionisiaca semplicemente una festa della sfrenatezza sessuale e sensuale: era una festa in cui l’eccitazione, portata al culmine della sua esplosione, veniva trattenuta dal dio, perché si trasfigurasse in conoscenza. Questo è molto bello e si può evincere dalla stessa tradizione, se la leggiamo con maggiore attenzione. In questo modo, il vino non è più il contrario della sobrietà e della conoscenza – per cui perdiamo la testa e non capiamo più niente –, anzi, il vino trattenuto, controllato dalla ragione, dalla forma, da Apollo, in una collaborazione tra Apollo e Dioniso, diviene quell’ardore, quello slancio, quella passione che consente la conoscenza, la vera conoscenza. Per cui la vera conoscenza è nel fondo della bottiglia di vino, se non passiamo alla seconda. Com’è risaputo, il vino ha una lunga storia, veniva già bevuto dai Greci nei loro simposi ed è notevole che Atene fondi sul simposio la capacità di controllare, ma anche di utilizzare il vino: ci si mette tutti insieme, giovani e vecchi, e così si fa scuola, si forma la gioventù, che viene, per dir così, spinta a bere in maniera controllata, in modo da poter poi trasfigurare l’emozione in canto, in racconto e, attraverso questo, conoscere tante cose. In altre parole, si entra in una conoscenza tra vecchi e giovani: i vecchi raccontano, i giovani cantano. E sono tutti portati a questa effusione da un vino che però non era quello che conosciamo oggi, era una sorta di mosto che bisognava allungare con l’acqua. Ma in questo mosto originario, dal quale il vino continua a derivare, c’era la natura selvaggia del vino, la forza di quella natura primordiale, che l’uomo ha, in qualche misura, controllato e raffinato nei secoli. Ecco perché un vino come il Lambrusco, che esplode con la sua vitalità, ma ha un fondo asprigno, non dimentica le sorgenti della terra. Tra parentesi, anche Heidegger, che ha parlato dell’unione del cielo e della terra nell’acqua e nel vino, può essere considerato un dionisiaco. Un vino troppo vellutato, viceversa, ha perduto questa carica, sembra più adatto a incontri molto raffinati, tra persone molto civilizzate. Il Lambrusco, invece, ha la forza dell’incontro vero, genuino, tra persone sicuramente civili, ma non così raffinate da diventare estenuate. È un vino, come si dice, sincero. ***Il testo di Carlo Sini viene qui pubblicato per gentile concessione dei Consorzi del Lambrusco di Modena e Reggio Emilia.