NIETZSCHE, LA SCHIZOFRENIA, LA PAROLA

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professore di Neurologia e Psichiatria all’Università di Colonia, membro onorario dell’Associazione Mondiale di Psichiatria

Nonostante abbia avuto e abbia tuttora un ruolo di primo piano nella Società mondiale di psichiatria e sia stato presidente e vicepresidente della Società tedesca di psichiatria, psicoterapia e neurologia, lei è noto per le sue opinioni divergenti rispetto alla psichiatria tradizionale, come quella intorno alla schizofrenia, di cui parla nei suoi libri…

Molti psichiatri cercano ancora l’origine somatica della schizofrenia, anche se, in centocinquant’anni di ricerca, non hanno trovato nulla, anzi, i neurologi hanno confermato che solo chi ha un cervello normale può diventare schizofrenico.

La schizofrenia può essere probabilmente sempre curata e anche i peggiori dati statistici riportano che questo disagio è superato nell’80 per cento dei casi, sebbene in tempi molto lunghi, venti o trent’anni.

Con il mio metodo clinico, che si avvale dell’interpretazione psicanalitica, ho seguito per vent’anni una professoressa di teoria della comunicazione che ha superato la schizofrenia, è tornata al suo lavoro e ora sta scrivendo un libro con me. La psichiatria comune non condivide il mio metodo per diversi motivi: da un lato, non osa intaccare gli interessi dell’industria farmaceutica e, dall’altro, è ancorata al metodo scientifico dei protocolli terapeutici. Inoltre, per la gente comune non è facile accettare tempi così lunghi, nonostante i numerosi casi che ho seguito, dei quali do testimonianza nei miei libri, confermino l’efficacia del mio metodo.

L’International Classification of Disease, nella definizione di schizofrenia, cita fra i sintomi principali il fatto che “il pensiero diventa vago, ellittico, oscuro e la sua espressione nel discorso è spesso incomprensibile”. In che modo questo si discosta da quanto lei incontra nella sua pratica clinica?

Nei miei libri riporto numerosi casi che potrebbero essere classificati come schizofrenia, proprio per l’apparente impossibilità di capire i discorsi enunciati. Per esempio, una giovane donna a cui era stata diagnosticata una schizofrenia sintomatica, con disturbi somatici, parlava così velocemente da risultare incomprensibile. Tuttavia, registrando i suoi discorsi e riascoltandoli, mi sono accorto che stava raccontando tre storie simultaneamente, storie di senso compiuto dall’inizio alla fine. Una di esse parla dell’assassinio di sua sorella da parte del marito nel giorno di venerdì santo. Inizia così il suo racconto: “Gesù a trent’anni morì sulla croce”. Tutti gli anni, il venerdì santo, viene a parlare con me e mi ringrazia di “togliere i vermi dal suo naso”, scusandosi per l’espressione. Riprende la narrazione biblica, sottolineando come Maria avesse solo un figlio mentre lei ne ha due. Al termine del racconto, mi chiede d’intervenire. La trascrizione di questi racconti è stata di grande interesse per indicare come ciò che sembra pazzia abbia in realtà un senso inaspettato.

È interessante come il suo lavoro si avvalga principalmente delle parole, dell’ascolto di ciò che le persone dicono, anziché dell’osservazione e della conseguente stigmatizzazione dei loro comportamenti…

Sì, io mi avvalgo sempre dei testi, chiamo il mio metodo anche “analisi del testo”, i testi sono l’unico materiale di lavoro che si ottiene dai pazienti. Questa è una grande differenza fra il mio metodo e quello della psichiatria comune. Gli psichiatri non sono affatto interessati a ciò che il paziente dice, non c’è ascolto, l’idea di base è che i pazienti psichiatrici siano pazzi, dicano cose senza senso, di cui non occorre interessarsi. Sono stato in numerosi reparti psichiatrici in vari paesi del pianeta e ho chiesto d’incontrare le persone diagnosticate come schizofreniche: parlando con ciascuna di loro, sono riuscito a intendere la loro parola e a trovare una chiave interpretativa grazie alla quale i loro enunciati risultavano pressoché normali. Ma questo ha portato gli psichiatri a scusarsi per aver sbagliato la diagnosi: non poteva più trattarsi di schizofrenia per il fatto stesso che gli enunciati erano stati interpretati ed erano comprensibili. La reazione della psichiatria tradizionale è sempre stata questa.

Ho anche incontrato Otto Kernberg, siamo amici e mi ha invitato a New York dove ho incontrato un paziente afroamericano, difficile da comprendere per me a causa della lingua, ma parlando dopo un po’ sono riuscito a instaurare con lui una normale conversazione, in seguito alla quale ha continuato a scrivermi. Non ci eravamo mai incontrati prima né ci siamo incontrati in seguito, ma in quella conversazione si è sentito talmente capito che ha continuato a scrivermi per anni.

Lei ha scritto che la scienza ha preso il posto della religione: oggi si crede nella scienza come una volta si credeva in Dio…

È vero, come nel medioevo c’era solo un Dio, una sola religione, oggi la gente crede solo in ciò che può essere “provato scientificamente”. Ma la schizofrenia concerne la parola, è qualcosa che non può essere provato secondo i criteri della scienza naturale. Eppure, per gli scienziati, non si può neppure fare una comparazione tra il mio metodo e quello delle linee guida dell’OMS, perché ciò che non è scientificamente provato, per loro non esiste. Ma, come hanno dimostrato i filosofi più volte, è solo una convinzione, una presunzione: la cristianità e la Bibbia non hanno sbagliato più della scienza. Ciò che sta alla base della parola non è scientifico: gli scienziati non hanno il diritto di dire che loro hanno ragione, mentre gli altri hanno torto.

Oltre ad avere pubblicato il libro, tradotto in Italia nel 2007, Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio (Spirali), lei si è interessato anche di un altro grande autore tedesco che era stato internato in una clinica psichiatrica, il filosofo Friedrich Nietzsche…

Credo che la diagnosi di sifilide fosse corretta, ma, analizzando i pochi foglietti rimasti fra gli scritti di Nietzsche del periodo dell’internamento nella clinica psichiatrica di Basilea – mai pubblicati perché ritenuti soltanto deliri privi di senso di un pazzo –, non ho riscontrato nessun segno di schizofrenia, nessun errore nella scelta delle parole. In quei foglietti il filosofo parla della sua vita e cita correttamente la Bibbia e il Faust di Goethe. A causa del suo internamento, nessuno andava a parlare con lui, perché non aveva senso parlare con un sifilitico. All’epoca Nietzsche era poco noto e solo Julius Langbehn, che aveva letto i suoi libri e lo considerava il più grande genio di tutti i tempi, parlava con lui facendo lunghe passeggiate, come riporta nelle lettere alla madre di Nietzsche, sua tutrice, che andava a trovarlo raramente. Nella sua breve autobiografia, Nietzsche chiede al lettore di riconoscerlo per ciò che era stato e per ciò che era, di non sminuirlo, insiste moltissimo su ciò. In questo foglietto scritto di suo pugno, che citerò nel mio libro, fa appello al lettore: “Per favore, considerami un normale essere umano, trattami come un essere umano”. E, riferendosi all’olocausto, un regista scrive: “Un essere umano deve essere riconosciuto tale anche in una situazione estrema. Un essere umano è sempre un essere umano”. Era questo l’appello di Nietzsche: “Anche adesso, io sono un essere umano. Per favore, accettatelo”. Evidentemente, non lo fecero.

Lei scrive cose di grande impatto anche sull’opinione pubblica. Non teme possibili ripercussioni?

Ma ho scritto anche molti libri per i miei colleghi in materia di psichiatria e ho avuto un ruolo di primo piano nella psichiatria mondiale. Tra l’altro, sono stato proposto per due volte come presidente dell’Associazione Mondiale di Psichiatria. Ormai i miei colleghi sanno che le mie opinioni sono sempre discordanti.

Purtroppo, la psichiatria tedesca, come la Germania in generale, dopo la seconda guerra mondiale, non ha più trovato una propria autocoscienza. È impossibile continuare a vivere come prima, quando si viene a conoscenza dei fatti dell’olocausto: è stato il più grande trauma della mia vita. Ho dovuto elaborare molto ciò che mi tormentava: il pensiero di fare parte della gente che si è resa colpevole dell’olocausto, una cosa terribile.

Poi ho pensato che occorreva fare uno sforzo in questa direzione e per questo ho organizzato il primo simposio israeliano di psichiatria a Gerusalemme. Mai prima di allora gli ebrei avevano costruito qualcosa insieme ai tedeschi. Il simposio si tiene periodicamente tuttora e proprio gli psichiatri ebrei mi hanno proposto di diventare presidente dell’Associazione Mondiale di Psichiatria.

Attualmente, sto pensando di scrivere, insieme a mia figlia, un libro che potremmo intitolare: Hitler, restituiscici i nostri ebrei. Gli ebrei hanno giocato un ruolo importante nella nostra vita intellettuale. La Germania, senza gli ebrei, è stata privata di una parte del suo genio. Non dobbiamo dimenticare che Freud era ebreo.