LA MANO POETICA DELLA CITTÀ

Qualifiche dell'autore: 
cifrante, scrittrice, presidente della casa editrice Spirali

Milano

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

               villeggiatura. Mi riposo in piazza                                

del Duomo. Invece di stelle                                       

ogni sera s’accendono parole.                                    

Nulla riposa della vita come                                      

 la vita.                                                                   

(Umberto Saba)

 

“Vado spesso in altre città. Abito però a Milano:

dove nulla mai rimane statico, nulla inerte, nulla finito!

Una conversazione sembra subire una battuta d’arresto?

Per un’altra combinazione può prendere

in qualsiasi momento un’altra piega”.

(Armando Verdiglione, Il giardino dell’automa, 1984, pp. 304-305).

 

Un libro nato per amore, verso una città inamabile come è Milano. Tu la ami, ma non devi dirglielo. Lei se ne accorge, ma non lo dà a vedere. Poi, un giorno all’improvviso, un miracolo accade. O se ne viene con uno dei suoi cieli rari limpidissimi fino all’orizzonte. O con certe notti, quando la luna, in piazza della Scala, scende con il suo magnifico decolleté, piena e sfacciata come sa essere solo lei.

È il modo che ha la città di restituire ciò che le dai. Un modo riservato, quasi scorbutico, poco appariscente. È la città bella-e-brutta. E noi viaggiamo, viaggiamo, vediamo grandi città distese, e grattacieli e palazzi e giardini e piazze sterminate e, al ritorno, arrivando dall’aeroporto, Milano ci pare piccolina, quattro stanze, cucina e soggiorno.

A chi ti chiede in che città vorresti vivere, non rispondi mai: a Milano. Ma quando parti e te ne vai lontano, è sempre lì che devi tornare. Per poter sognare di altre città, di altre vite e tenere in agenda quell’appuntamento con il Sud — chissà quando, chissà quando — che ti fa vivere.

Roma appartiene a una di quelle vite sempre ancora da vivere. Così vicina al nostro Sud che, arrivando, ti viene da arrossire, per quella prossimità lussureggiante.

Gianni Verga (autore del libro Come avere cura della città, Spirali) l’ho incontrato ed è stata subito la seconda volta. Originaria. Colori, atmosfere, immagini: una città inattesa si disegna nel suo racconto. Strade, vie, piazze di una città della memoria emergente a strati dalla città un po’ brutta e volgare di un’epoca sorda e frettolosa. Ci voleva, un libro così, quasi sussurrato in mezzo a tanti schiamazzi. Senza proclami, senza statistiche. Il racconto di qualcosa che andava facendosi; questioni, domande, riflessioni. E speranze, progetti, programmi. Con decisione. Con amore. Con fede nella riuscita. Per incominciare a narrare, a non dare per scontato nulla, a non delegare all’altro ciò che occorre fare. Ciò che noi dobbiamo fare.

Un libro incomincia così, per una breccia che dissipa la superficie piana, fa intravedere lo squarcio e il rilievo, e sullo sfondo il caso, unico e particolare, di un uomo in viaggio.

Un libro incomincia così, per un’idea, una bizzarria seria, una scommessa. Per un gesto d’autorità, per un nome che funziona, per qualcosa che aumenta e cresce. Auctor. E per una sfida e una provocazione.

Autore e editore, un dispositivo non conformista. Un dispositivo narrativo e pragmatico.

L’epoca. Noi non viviamo nell’epoca, noi viviamo nella memoria. E, del resto, non è con i ricordi che noi possiamo scrivere e inventare e viaggiare. È uno straordinario dispositivo di scrittura e di restituzione della memoria quello in cui noi ci troviamo. La domanda non è: cosa che resta del passato, ma cosa resta dell’avvenire.

Perciò la nostra missione è promuovere idee, tessere reti, provocare, inventare, organizzare, tradurre, trasmettere, trasporre e restituire ciò che non è mai stato. Fornendo all’editoria le basi nuove di un’altra cultura e di un’altra tecnica. Fino all’edizione. Di un libro sempre da scrivere, di un avvenimento che va facendosi, al tavolo di un convegno, di un laboratorio editoriale, di una cena. L’idea di un libro incomincia a operare prima ancora che esso si scriva, opera nel tessuto della produzione, della cura editoriale, della stampa, della distribuzione, della vendita, dell’accoglienza, del dibattito.

La nostra città si costruisce sul fare e sulla politica del tempo. La vera politica. Non sul discorso politico: non sull’idea della massa, dei suoi bisogni e dei suoi consumi. Non sulle abitudini, che, tra tutti gli abiti del nostro armadio, è quello più sgraziato.

Una città industriale è una città che non reagisce all’attuale, al vento della novità, che non teme l’avvenire. Dove noi, grazie a Dio, viviamo del superfluo. È anche una città che, inventando cose nuove, non cancella la memoria. La esalta. Costruisce e restaura, inventa e mantiene, cura e ripristina: ma anche legge gli infiniti strati di ciò che resta e restituisce quel che non è mai stato. Fino a acquisire la classicità.

Chi inventerà la città? Non chi se ne sta pieno delle sue certezze, pronto sempre a rispondere a domande ancora da formulare, con la sua verità in tasca, facile facile, specialista di tutto, psicologo per eccellenza, diagnostico superbo, professionista delle cose destinate a finire. A inventare la città sarà chi segue la strada stretta della parola e si trova nel ritmo della città, nella battaglia quotidiana, a ingegnarsi, a non cedere, a non dimettersi, a rassegnarsi mai, a non sottrarsi alla missione di vivere in qualità e bellezza e nella scommessa di riuscire, nella difficoltà e nel rischio: e ci si trova per forza, in quella battaglia, come capitano, come imprenditore, come amministratore, come artigiano, come ingegnere e poeta, in ciascun caso “costretto” dalla necessità a divenire dispositivo di forza.

Città come struttura e come dimora.

La città ha bisogno di ben altro racconto, di ben altra favola, di ben altra fabbrica: perché le cose, anzitutto, cominciano a esistere nella parola e non c’è chi possa fare senza raccontare. E per raccontare occorre la lingua delle cose che si fanno, la lingua dell’intendimento e della semplicità.

Incomincia a governare, a amministrare, a avere cura della città chi rinuncia a qualsiasi idea di padronanza sulla vita, sulle cose, sulla parola. E chi coglie qualcosa di essenziale: che la comunicazione si stabilisce come scrittura della politica, come scrittura dell’esperienza, come via con cui le cose s’intendono. E che la politica stessa procede dall’apertura, dall’interrogazione aperta, da quella domanda che non abbia già in sé la risposta. E si scrive nella lingua della diplomazia.

Una politica che si fondi sulla logica binaria, sulla logica del sì o del no, sulla questione chiusa non è fatta per i cittadini, ma per sudditi sempre in difetto. Machiavelli la chiama “sanza pietà”.

È degna di chiamarsi tale, nell’accezione più nobile, quella politica che tenga in massimo conto la parola originaria, la parola che dissipa il dialogo conformista che ha sempre opposto gli umani nella sciagurata coppia dell’interrogato e dell’interrogante, che ogni dialogo prende a modello.

È degna di chiamarsi tale, nell’accezione più nobile, quella politica che tenga in massimo conto la scienza della parola — la parola presa nella sua particolarità, nella sua logica, nel suo idioma, nella sua proprietà — anziché la presa sulla parola.

È degna di chiamarsi tale quella politica che si sottrae al litigio, alla zuffa, al rumore del pettegolezzo. Politica altra. Politica intellettuale. Politica dell’altro tempo.

Se l’intellettuale non è una classe né un’elite né una professione, non c’è potere intellettuale. Se mai, il potere è un effetto dell’intellettuale come dispositivo di qualità, come stile. E l’impegno non è politico, ma etico. Un’altra politica — pragmatica, aritmetica, narrativa, ritmica --— senza nessun finalismo, noi auspichiamo per la nostra città. Una politica dell’altro tempo, una politica dell’ascolto. Anziché rispondere ai bisogni, la politica dovrebbe anzitutto imparare a questionare. E arrivare a disegnare, narrare e scrivere la carta intellettuale della città. Fino all’approdo alla qualità, dove le cose che si fanno secondo l’occorrenza si concludono.

Nella città dove regna l’indecisione, dove si attende sempre che qualcuno risolva ogni problema, miracoli non ne succedono!

Nella città senza autorità, dove l’aumento, la crescita siano negate, ogni sbaglio è sempre attribuito all’altro. Tutti vogliono comandare e fanno la voce grossa. E nessuno osa prendere una decisione.

Il consenso non può sostituirsi all’autorità, all’autore.

Nella città in cui ci sia l’idea di un’alternativa alla vita, alla riuscita, alla salute, è la morte a farla da padrona. E la fede è persa.

La nostra città, quella in cui noi viviamo, è fatta a strati, non a gerarchie.

La nostra città è adatta alle arti e ai mestieri, alle macchine e alle tecniche, alle lettere e alle scienze, non alla disgraziata divisione --— dissipata proprio da Leonardo, ma ripresa e enfatizzata dall’idea di discriminare colletti bianchi e tute blu — fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che oggi rischia di vedere estinguersi le arti più raffinate e quelle più antiche con i loro mirabili artifici, i loro idiomi, e i loro ricchissimi dizionari: ebanisti, falegnami, tessitori, tappezzieri, ricamatrici, restauratori, intagliatori, fabbri, tornitori, lattonieri, fonditori, tipografi. Quale lavoro della mano può fare a meno dell’intelligenza, delle parole, del pensiero? E quale mano può dirsi non intellettuale? Forse solo la mano sulla città, quella di cui racconta in un aneddoto folgorante Sergio Mattia. Non più le mani sulla città, ma la mano della città: una mano intellettuale, una mano industriale, una mano artistica, una mano che opera, disegna, progetta, costruisce, calcola, dipinge, taglia, dispensa, piega, scrive. Una mano indulgente e tollerante.

Il secondo rinascimento: l’Europa non ha più bisogno di erigere muri. Non deve più fondarsi sulle cose malate, sulla negazione dell’oggetto e sulla fine del tempo.

Quando ho incontrato Gianni Verga, mi ha colpito in lui una certa sua conversazione interiore, e ho pensato che, se non avesse fatto l’amministratore pubblico, avrebbe scritto poesie. Poi, mi sono accorta che mi ero sbagliata: lui, le poesie, non ha mai smesso di scriverle. Con la sua ingegneria: piani urbanistici, riqualificazioni di aree urbane, lavori pubblici.

Ce ne fossero, a Milano, poeti così.