IL SERVITORE DELLA SCRITTURA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
scrittore, poeta, traduttore, direttore del Dipartimento di francese al Barnard College della Columbia University dal 1960

Non mi riconosco negli interventi di Sergio Dalla Val e Anna Spadafora, non mi riconosco in nient’altro che non sia ciò che sto scrivendo adesso. Ma è meraviglioso incontrare lettori che, come loro, con la loro analisi straordinaria, hanno inventato lo scrittore, mi hanno inventato.

Se volessi aggiungere qualcosa alla loro lettura, potrei parlare del ritmo. Quando scrivo, ascolto. E dopo avere scritto, ascolto. E, se correggo ripetutamente, è per trovare il ritmo in ciò che scrivo. Per me, c’è un’imprevedibilità nella successione del testo, ma c’è l’assoluta certezza che, quando avrò concluso, il ritmo avrà instaurato la sua autenticità.

Cosa si può dire di sé, il sé non è forse una delle tante finzioni? Noi abbiamo, senza saperlo, un sapere che ci attraversa e la scrittura è una rivelazione di qualcosa che ignoriamo. Di pagina in pagina, di libro in libro, io dimentico me stesso. Non definisco in via preliminare un testo, è il romanzo a scriversi. Io sono il servitore, il domestico della scrittura, mi metto in ascolto, per apprezzare il ritmo della scrittura, ma non so quel che viene. E ciascun romanzo non è mai lo stesso. Non posso più distinguere tra me stesso in quanto me e un lettore. Per questo, la lettura è simultaneamente un enorme piacere, ma anche un confronto, in cui il lettore è capace di andare al di là di ciò che ho scritto.

Non a caso, il mio ultimo romanzo, che sta per uscire in inglese, s’intitola Il silenzio della memoria. È la verità. Ma la verità non esiste, siamo servitori del sapere e della memoria. Ecco perché ciascuna persona, lungo la lettura, scrive il proprio libro.

Per quanto mi riguarda, in tutto ciò che scrivo – poesia, traduzione, romanzo – e che dico – sono stato professore, dunque ho sempre parlato –, mi faccio beffa della parola, perché può ingannarmi. Allora, da uno scritto all’altro, la sola cosa importante per me resta la scrittura. Il mio testo non è un’invenzione, ma una suggestione che mi faccio e forse ho una chance meravigliosa, quella che qualcuno possa decifrarmi. Siamo freudiani o qualcos’altro da decifrare, per cui ciascuna lettura è una traduzione. Così, di romanzo in romanzo, il romanzo sparisce e solo la parola di un lettore che legge a voce alta fa vivere la scrittura.

Freud si è occupato molto del lapsus: chi parla non ha alcuna idea di quel che dice, perché quel che dice dev’essere istantaneamente corporalizzato, fare un corpo. Questo lavoro, che alcuni chiamano piacere, è un immenso piacere lungo la scrittura stessa. Non è allo scrittore che occorre riconoscere finezza d’intelligenza, è come se ci fosse un lento divenire, in cui io scrittore non faccio altro se non innaffiare una pianta. Io sono cieco. Sono gli altri a definire la mia definizione. Per questo dico che il lettore mi ha inventato, ha scritto il mio romanzo, io posso forse firmarlo, ma devo passare attraverso l’intervento della traduzione. E la traduzione è come il coitus interruptus, la traduzione coesiste costantemente con la sua contraddizione. Il dizionario, solitamente, fornisce una definizione lessicale. Ma Freud ha cambiato griglie, per passare dal lessicale al teorico. Nella sua Introduzione alla psicanalisi utilizza il termine “tradurre” almeno cinque volte e nella sua pratica psicanalitica si traduce l’Altro. L’Altro è un testo. Un testo che non conosce se stesso. Partendo da questa sostituzione, dal lessicale al teorico, ciascun traduttore deve essere attento non solo alla struttura semantica – ciò che chiamiamo significato – ma anche alla pulsazione che rivela lo sfondo delle parole.

Per capire quello che si chiama un libro, non abbiamo bisogno di un dizionario lessicale, ma di un dizionario di teoria. Una volta acquisita la teoria, potete penetrare nelle pagine (notate l’immaginazione sessuale della penetrazione nella pagina). La traduzione può essere una falsificazione. Leggendo, traducendo, voi mi avete scritto. Allora, che cosa resta, oltre al dizionario che ha rimpiazzato il lessico con la teoria? Qui si pone una questione culturale: l’esperienza di uno scritto giapponese si presta alla globalizzazione di tale scritto da parte di un’interpretazione della teoria occidentale? Secondo il mio esile pensiero, la teoria è multipla. Non penso che possa esistere una globalizzazione della teoria. L’uomo civilizzato può credere che la teoria sia una griglia, un apprezzamento sintagmatico. Secondo il suo interesse semiotico, un freudiano, come ciascuno, nella sua lettura, moltiplica il e i sensi. Dunque, se fossi un giapponese, la mia scrittura sarebbe ugualmente esaminata attraverso la luce freudiana, ma l’altro, colui che spiego a se stesso, non capirebbe niente, perché ci sarebbero due sistemi sintagmatici: quello dell’oggetto e quello del soggetto. Tra i due può esserci conflitto, se non si ha voglia di capirsi come ci propone l’analista.

L’elemento che mi sembra abbia un’importanza capitale è la paura. La paura, il potere e la morte. Dico la morte perché ciascuno scritto incomincia con l’inizio della vita di un personaggio per arrivare alla fine del romanzo con la sua morte. Ma la morte è discreta, contiene la musica, il ritmo della persona. La teoria in quanto tale brilla, può accecarmi. Colui che mi legge in quanto analizzante arricchisce la mia definizione. Da qui consegue una doppia esistenza: quel che è contenuto e colui che ne tiene conto, con-tenuto.

Allora, un principio fondamentale è la menzogna, l’accecamento. Non si può contraddire, contro dire, la parola dell’Altro, perché nella sua debolezza il testo non può proteggersi dalle vostre dita. È un voltare le pagine e, talora, durante la lettura, avete preso l’evidenziatore e sottolineato e, man mano che sulle pagine avete indicato quel che v’interessa, a margine avrete scritto un altro romanzo e dunque un’altra identità, per una doppia scrittura: colui che ha scritto e la combinazione di colui che è e che può esprimere quel che sta leggendo.

Ma la questione della traduzione si può affrontare anche parlando della poesia e di ciò che per molto tempo l’ha caratterizzata: il lirismo. Jacques Roubaud, grande poeta francese, nonché critico e professore di matematica, sosteneva che la definizione di “lirismo” fosse nell’“Oh! Oh! Oh! Oh!”. Facciamo un esempio tratto da una poesia molto triste di Lord Tennyson: “Break, break, break,/ On thy cold gray stones, O Sea!/ […] But O for the touch of a vanish’d hand/ And the sound of a voice that is still!”. (“Spacca, spacca, spacca/ le tue fredde pietre grigie, oh Mare!/ […] Oh, il tocco di una mano scomparsa/ e il suono di una voce che tace!”). Anche per Lamartine, poeta del XIX secolo, è l’“Oh!” a segnare l’inizio del lirismo, non il contenuto della poesia.

Il lirismo passò di moda quando arrivarono poeti come André Breton, che nel primo Manifesto del surrealismo fa numerose allusioni a Freud e in particolare, ovviamente, ai sogni. In un romanzo autobiografico intitolato Nadja, Breton scrive: “Chi sono io?”; e questo potrebbe essere un richiamo alla psicanalisi, attraverso un riferimento intertestuale a ciò che aveva scritto Rimbaud nell’Alchimia del verbo: “Io è un altro”, una definizione a-grammaticale del “sé”, che segna una prima scomparsa del lirismo all’interno di un gruppo ristretto.

Uno dei maestri della critica al lirismo fu Stéphane Mallarmé: si pensi alla poesia Un colpo di dadi non abolirà mai il caso. Nella tradizione francese, solitamente si ritiene che la poesia sia definita dal verso alessandrino di dodici sillabe, non dal contenuto poetico, ma dalla forma. Consideriamo questa poesia di Mallarmé: due pagine in cui insiste sulle lettere maiuscole, mentre solitamente si utilizzano le maiuscole per i titoli.

La seconda ridefinizione radicale della poesia sta nel fatto che egli scrive da un lato all’altro della pagina, in diagonale, questo indica che c’è un altro significato, proprio sulla pagina. Non esiste più quell’“Oh!”, non c’è più lirismo, a meno che non stiamo parlando della musicalità. Quando Debussy propose al suo amico Mallarmé di musicare la sua poesia, si sentì rispondere: “Pensavo di averlo già fatto io”.

Prendiamo come ultimo esempio il poeta Francis Ponge. La sua prima raccolta di poesie, che rappresenta un ponte con tutto ciò che l’ha preceduto fino a Mallarmé, s’intitola Il partito preso delle cose. Jacqueline Risset, traduttrice di straordinario talento, l’ha tradotta in italiano. Per quanto riguarda le influenze di Ponge, voglio sottolinearne solo due: Lucrezio, con il De rerum natura, e Kant, con la “Cosa in sé” (“Ding an sich”), citata anche da Freud. Nel caso di Ponge, la novità poetica non è solo a livello del contenuto, ma anche nel suggerire che possa costituire una magnifica poesia anche un oggetto ordinario come un bicchiere d’acqua, una porta, una candela o le consuetudini matrimoniali dei cani.

In conclusione, quando la traduzione raggiunge il suo limite – considerando il divario fra sperimentazione e tradizione, nella traduzione di una poesia nella stessa lingua, dall’italiano all’italiano, per esempio – ha come risultato che ogni volta che rileggiamo una poesia sarà una poesia differente, un’esperienza nuova, così come quando incontriamo qualcuno per la prima volta.

***L'articolo di Serge Gavronsky è tratto dai dibattiti che si sono tenuti il 17 luglio 2013 intorno ai libri dell'Autore editi da Spirali   (“Words are my life”. La psicanalisi, la scrittura, l’impresa, Modena, Villa Corte dei Melograni; Parigi, New York, Bologna. Gavronsky e la scrittura del pianeta, Bologna, Libreria Il secondo rinascimento).