LA VERITÀ DELLA TECNICA

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già professore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

Di tecnica si è cominciato a parlare in maniera diffusa tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando esplose la consapevolezza della grande potenza tecnologica dell’Europa, con la sua scienza e la sua tecnica: si annunciava un futuro straordinario, dove tanti problemi tradizionali della vita umana si sarebbero risolti brillantemente. Tuttavia, anche a causa delle tragedie del Novecento, con le due grandi guerre, alla fase di entusiasmo ne seguì una polemica, critica, sospettosa: la tecnica cominciò a essere percepita come il grande nemico della naturalità, come una perversione umana, come un pericolo incombente o addirittura la possibilità della fine della vita umana sul pianeta. Ma nel momento in cui queste due posizioni erano ancora vive, il filosofo Martin Heidegger si chiese, nel saggio La questione della tecnica, che cosa intendiamo quando parliamo di tecnica e, non accettando né l’atteggiamento ottimistico né quello pessimistico, scrisse: “Non si tratta di abbandonarsi alla tecnica in modo cieco, ma non si tratta neppure di rivoltarsi malamente contro di essa e di condannarla come opera del demonio. Al contrario: se ci apriamo autenticamente all'essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore”. Dunque per lui la tecnica non è né male né bene, ma, soprattutto, nel modo di essere umano in quanto tecnico è nascosto un appello liberatore. Liberatore da cosa?

“L’essenza della tecnica”, scrive Heidegger “è sommamente ambigua, è complessa”. La parola “tecnica” viene dal greco téchne, che si suole tradurre anche con la parola arte: ma cosa ha a che fare la tecnica con l’arte? Continua Heidegger: “Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine alla tecnica, all'essenza della tecnica, e dall'altro però ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte”. In effetti siamo pieni di macchine, addirittura abbiamo creato una simbiosi tra la vita biologica e la vita meccanica (pensiamo al pacemaker o alle varie protesi). Eppure, se ci domandassimo qual è l’essenza della tecnica, ci sarebbe il silenzio. Qualcosa di tecnico? Certamente no. Qualcosa che ha a che fare con l’arte? In che senso? “Non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l’essenza della tecnica ─ scrive Heidegger ─, in che modo è connessa con la verità dell’uomo”. Ma intanto la tecnica sembra condurci anche verso un estremo pericolo: basti pensare che ogni giorno trenta specie viventi del pianeta vengono meno per l’azione degli esseri umani, e se viene meno la biodiversità viene meno la vita. E allora la tecnica, l’economia, la cultura moderna e il progresso sono cose meravigliose per certi versi ─ chi potrebbe negarlo sensatamente? ─, ma pericolosissime per altri. Eppure Heidegger, dopo un saggio così denso, in certi passaggi addirittura tragico, finisce con uno squarcio di luce: “(…) quanto più ci avviciniamo a un pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva”. Ma cosa è ciò che salva?

Potremmo provare a chiedere a Immanuel Kant ciò che leggendo Heidegger ci è rimasto come domanda finale: qual è la verità dell’uomo? È forse la tecnica? Come risponderebbe Kant a questa domanda? In un saggio del 1786, dal titolo Congetture sull'origine della storia, Kant compie un lavoro singolarissimo, analizza i capitoli II, III e IV della Genesi e ne offre un’interpretazione razionalista, alquanto scandalosa ai suoi tempi, leggendo in quei capitoli come sarebbe nata l’umanità.

Egli ritiene che il mito biblico narri di un grande avvenimento naturale: il passaggio dell’essere umano dallo stato puramente animale ─ simboleggiato dal paradiso terrestre, dove tutto gli è fornito dall'istinto, dove l’uomo non deve imparare niente di particolare se non quello che è già costruito dentro di lui dalla natura stessa e che semplicemente deve sviluppare nel corso dell’esperienza di vita ─ a una condizione nuova, dove tutto dipende dalla ragione. La ragione: quello che noi chiamiamo tecnica, quello che abbiamo letto come arte in Heidegger, in Kant risuona con la parola “ragione”. Scrive Kant: “Finché l’uomo incolto obbediva all'istinto, cioè a questa voce della natura, si trovava bene, ma la ragione venne presto a destarlo e cercò anzitutto di estendere le sue conoscenze degli alimenti oltre i limiti segnati dall'istinto”. Kant legge la questione della mela come l’immagine sintetica di una lunga vicenda attraverso la quale una specie animale che si nutriva secondo l’istinto passa, probabilmente per mutamenti climatici, a dover mangiare altro. Il mito della mela diventa il mito dell’allargamento delle proprie possibilità alimentari, secondo cui la ragione desta l’uomo dall'istinto e lo assegna a tutt'altra condizione. “La ragione”, dice Kant, “lo desta con l’immaginazione”: questo animale immagina di mangiare il non mangiabile, il non commestibile, per sopravvivere ha la capacità di uscire dai limiti del prescritto naturale, dell’istinto, e delimita altre vie, ed è la ragione ad incalzarlo. “Lo desta con l’immaginazione che suscita artificialmente desideri”, scrive. Gli animali non hanno desideri, hanno impulsi, è l’uomo che ha desideri, perché immagina quel che non c’è, quel che non è ancora lì, quel che è oltre l’orlo della sua immediata esperienza. E la ragione “suscita artificialmente desideri” perché l’uomo non era fatto per mangiare le mele eppure vi si adatta, eppure trasforma la dentatura, trasforma lo stomaco, la digestione, si erge sulle due gambe, usa le mani: diventa un altro animale. E la ragione “suscita artificialmente desideri non fondati sui bisogni naturali e causa prima di avidità e lussuria”. Kant descrive come si esce dall'innocenza animale e si entra nel mondo del desiderio, quindi nel mondo del bisogno non naturale, artificialmente costruito dalla ragione. E l’uomo che desidera, in quanto desidera, diventa avido e lussurioso, non cerca più, per esempio, nel piacere sessuale la semplice riproduzione, e accompagna queste immaginazioni con bisogni non naturali, con realizzazioni di sé al di fuori dei bisogni naturali. “L’essere umano”, scrive Kant, “scopriva in sé la facoltà di scegliersi un sistema di vita e di non essere legato come gli altri animali a un sistema di vita unico”. Ecco la tecnica: unico tra gli esseri del pianeta, l’uomo può sopravvivere a trasformazioni di clima e di condizioni alimentari, non è un’escrescenza dell’ambiente. L’essere umano costruisce il proprio ambiente, costruisce per sé le condizioni di sopravvivenza e di vita, le soddisfazioni, i bisogni non naturali. “Per questa via”, sottolinea Kant, “l’uomo apprese il pudore”: apprese la lussuria quindi il pudore, si vergognò di fare quella cosa che desiderava, quella cosa che l’animale fa davanti a tutti perché non la desidera, lo è e dunque non ha niente di cui vergognarsi poiché non ha niente da immaginare, non ha avidità. “Per questa via l’uomo apprese il pudore, l’aspettativa del futuro (…)”. L’uomo, come diceva Epicuro, soffre più degli animali perché non soffre solo del presente, ma anche del passato e del futuro: noi soffriamo di quel che non c’è, del timore del futuro, della perdita del passato e quindi siamo in una continua aspettativa, aspettiamo sempre altro, qualcosa che dovrebbe farci stare meglio, essere più felici. E l’uomo apprese “la consapevolezza della morte”: è l’uomo il primo mortale, mentre gli animali sono immortali, come gli dei. L’aspettativa umana del futuro è aspettativa di morte e dunque angoscia fondamentale, e fondamentale desiderio di sconfiggere la morte. Infine “la capacità di impadronirsi di tutti gli altri animali, per cibarsi, rivestirsi, armarsi”. Ecco la tecnica, ecco la téchne nel senso greco dell’arte, dell’arte di costruire, per esempio di fabbricare armi artificiali. Aristotele aveva detto che l’uomo era l’animale più terribile perché capace di costruire armi terribili, perché capace di dare la morte, quindi al di là delle forze dell’animale e della natura.

Ecco allora che nasce nell'essere umano questa duplicità, che Kant descrive attraverso questa analisi sorprendente dei primi capitoli della Genesi. Cosa accade all'uomo dopo il gesto di Adamo ed Eva di cogliere la mela? Quali sono le due condanne alle quali l’essere umano viene destinato nella cacciata dallo stato naturale, che è appunto il paradiso terrestre? Lo sappiamo tutti: che la donna partorirà con dolore e che l’uomo lavorerà con sudore. Ma questa è precisamente la tecnica che s’incarna nel corpo umano ab origine: la donna partorirà con dolore perché la sua postura eretta è artificiale, non è costruita per partorire come i quadrupedi. Dal canto suo, l’uomo invece lavorerà con sudore, utilizzerà cioè la mano, per costruire attrezzi, strumenti, ed è proprio la mano a distinguere l’uomo da tutti gli altri esseri viventi: il pollice opponibile gli offre la possibilità di manipolare il mondo, liberando la mano dalla bocca e preparando quest’ultima al linguaggio. “In questo modo”, scrive Kant, “l’uomo esce dall'infanzia, esce dal giardino della natura e la ragione gli impedirà in seguito di ricadere in quello stato di semplicità e d’ignoranza da cui essa lo fece uscire”.

In questo passo è presente una profezia che si potrebbe descrivere rapidamente con una domanda: crediamo davvero di potere tornare indietro? No, non si torna indietro. La ragione spinge costantemente l’uomo fuori da questa naturalità perché la ragione è la tecnica incarnata nel suo corpo, nella sua postura eretta, nella sua mano, nella bocca libera, “nei suoi occhi rivolti al cielo”, diceva Ovidio. In questo modo noi abbiamo messo in moto una macchina, una macchina che siamo noi stessi, un automa che siamo proprio noi, che non può più tornare indietro. Questo è uno dei grandi problemi oggi fronteggiati dall'economia mondiale: si trovano sempre più scuole di pensiero che, spaventate dai pericoli della tecnica, si chiedono come possiamo fermarci o addirittura tornare indietro. C’è chi critica il PIL come metro di valutazione del benessere e chi sostiene che nella povertà si stava meglio in quanto essa era condizione di dignità, rispondente ai nostri bisogni essenziali, a differenza della miseria, che è il prodotto del progresso tecnologico e delle nuove organizzazioni sociali ed economiche. Si dovrebbe dunque tornare nella povertà? Kant risponderebbe di no, non è possibile: una volta entrati nella ragione, in questo cammino del progresso, pensare che l’uomo possa tornare indietro è praticamente impossibile, “la ragione gli impedirà in seguito di ricadere in quello stato di semplicità e d’ignoranza da cui essa lo fece uscire”. Noi ci rendiamo conto che, quando ci troviamo di fronte al mondo dell’uomo nella ragione, ci troviamo di fronte a un mondo ambiguo, come lo chiamava Heidegger, o non innocente, come lo chiama Kant. “È la cosiddetta civiltà”, dice Kant, “che suscita l’idea di una caduta e di una pena”: quale popolo non possiede un mito della caduta? E la caduta induce a pensare alla vita come a una pena da pagare. È dunque nella società ─ sostiene Kant, riprendendo Rousseau ─ che compare il male, poiché la società umana, con la sua tecnica, la sua cultura, la sua ragione, contiene una contraddizione insanabile, per il fatto che l’uomo è nella sua verità un animale tecnico. È una contraddizione tra le inclinazioni e il vizio, dove le inclinazioni sono la verità animale, proveniente dalla nostra antica natura, né buona né cattiva, e i vizi quelle inclinazioni che non possono essere socialmente accolte o moralmente approvate. Dunque questa ragione, da un lato, è erede delle inclinazioni naturali, quindi in sé né buona né cattiva, dall'altro, va incontro alla condanna sociale.

Ma allora qual è la verità di questa essenza tecnica se essa è connessa da un lato con le inclinazioni e dall'altro con il vizio, con le contraddizioni dell’uomo morale? Kant dà una risposta molto lucida a questa domanda, afferma che la natura e la cultura perseguono fini diversi tra loro. Il fine della natura è la continuità della specie (ogni vivente ha il solo scopo di creare un altro vivente simile a sé, diceva già Aristotele) e la natura lo persegue puntando sui singoli viventi che vengono al mondo, poiché è l’individuo che porta in sé la specie e può mandarla avanti. La cultura persegue invece le finalità dell’individuo e lo fa tramite l’educazione: la costituzione dell’individuo sociale non si ha per nascita, ma con l’accesso all'educazione razionale, ovvero la tecnica. Dunque ciò che per la natura è già pronto nel singolo vivente non è pronto per la specie umana in quanto sociale: è un cammino. Ecco perché la ragione spinge fuori, ecco perché non consente di tornare indietro: perché non sarà attraverso la produzione d’individui, ma attraverso la produzione di comunità, che la verità dell’uomo potrà affermarsi. Scrive Kant: “La soluzione sta qui, nel punto in cui l’arte, pervenuta alla perfezione, si converte essa stessa in natura, ecco che questo è il fine ultimo della destinazione della specie umana”. Quindi qual è lo scopo dell’uomo, qual è la verità dell’uomo, qual è la verità della tecnica? È di raggiungere quella spontaneità che l’uomo ha perduto uscendo dal paradiso terrestre e che non può riguadagnare attraverso singoli individui, ma solo attraverso il cammino di tutti, attraverso un fine ultimo come destinazione della specie umana, la quale si congiungerà soltanto alla fine con l’inizio. La finalità è quella di creare individui razionali, cioè individui che hanno risolto la propria razionalità sociale, che sono divenuti perfettamente educati a vivere in società. “Quindi si passerà”, dice Kant, “dalla natura alla storia e dalla storia, tramite l’arte, alla vera natura umana”. Questa sarebbe la verità della tecnica, la sua funzione morale, politica, educativa.

Questo è un tema che Kant aveva già affrontato in un saggio di due anni prima, nel 1784, intitolato Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico. Nella terza tesi di questo saggio scrive: “La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre l’inclinazione istintuale della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altre felicità e perfezioni se non a quella che egli stesso libero da istinti si crea con la propria ragione”. Ora cominciamo a capire l’appello liberatore di Heidegger: la vera felicità di essere umano in quanto essere di ragione, in quanto essere sociale, non è nel soddisfacimento puro e semplice dei suoi istinti animali, perché noi siamo felici unicamente quando raggiungiamo quelle perfezioni che sono create da una libertà dall'istinto. L’essere umano è felice quando si può congiungere con la sua ragione, quando può dare ragione di quel che è, di quel che fa e del perché lo fa. La tecnica incarna un richiamo liberatore perché libera dalla necessità naturale, traduce la necessità naturale, per quanto è possibile, in qualcosa che è letteralmente “alla mano”, in nostra mano. Per questo è retorica la polemica contro la tecnica, accompagnata dall'esaltazione di non si sa quale naturalità. In realtà l’essere umano è l’essere della tecnica, è l’essere che costituisce nella ragione una destinazione che lo rende felice, non soltanto soddisfatto.

Per fare questo, secondo Kant, l’uomo si avvale del diritto. Infatti nella quinta tesi scrive: “Il più grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è il pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto”. Questo è il senso della storia umana per Kant, tutta questa tragedia umana ha uno scopo preciso, oscuro, di educare gli esseri umani a questa comprensione: non la forza, ma il diritto. Nell'animale solo la forza salva la specie, la selezione del migliore porta avanti la specie e la natura è tutta in quel singolo individuo. Per l’uomo no, per l’uomo c’è il diritto. E precisa nella sesta tesi: “Questo problema è a un tempo il più difficile e quello che la specie umana impiega più tempo a risolvere. La sua soluzione si radica evidentemente in quella destinazione umana che è il lavoro, come arte trasformativa”. Questa tecnica però non è certo ancora sufficiente, essa rappresenta ancora solo l’uscita dell’uomo dal paradiso terrestre. Dunque questa logica del lavoro è certamente trasformazione della condizione naturale originaria, ma è anche molto di più.

Allora cos’è l’arte, la tecnica, in quanto verità dell’uomo? La produzione di altri uomini. Non la produzione naturale ma la produzione di esseri umani, cioè esseri sociali, cioè esseri di ragione: esseri che comprendono attraverso le loro stesse contraddizioni che la casa dell’uomo è il diritto e non la forza. È lì che la sua arte ultima deve compiersi. Si può chiamare questa essenza con una parola: “educazione”, o utilizzare una parola ancora più forte: “politica”. La tecnica dell’uomo è l’arte politica, quella che mantiene le diversità nell'unità, quella che riesce a tradurre il contrasto in una polifonia, quella che riesce a mettere insieme le diverse forme, i diversi colori, le diverse figure, in modo che il quadro, pur nelle sue differenze, presenti una ragione di fondo, una ragione che costituisce una seconda natura, quella seconda natura per cui l’essere umano è umano.