ECOLOGIA DI MERCATO. IMPRESA, LIBERO SCAMBIO E PROPRIETÀ PRIVATA A TUTELA DELL’AMBIENTE.

Qualifiche dell'autore: 
Giornalista

Nel luogo comune, mercato e ambiente sono nemici irriducibili. Il primo è la causa dei problemi del secondo. Che il mercato possa essere, invece, la soluzione, non alberga lontanamente nel pensiero dell’uomo comune. Pertanto, ecologia di mercato suona più o meno a tutti come un ossimoro.
Tecnicamente parlando, per “inquinamento” si intende l’atto con cui una persona (o un’impresa) rimuove dalla sua proprietà qualcosa di indesiderabile, dirottandola sulla proprietà altrui senza il consenso del titolare. Ma se così è, allora il metodo più efficace per la tutela dell’ambiente è una coerente difesa della proprietà privata. Del resto, non è un caso che quelli con maggiori problemi di inquinamento siano stati, e siano tuttora, i paesi non occidentali. Nel recente passato, si pensi ai paesi dell’ex-blocco comunista, in cui la proprietà privata era bandita. Come ci ricorda Guglielmo Piombini, nel suo Privatizziamo il chiaro di luna: “Sulle coste del Mar Nero è stata portata avanti per decenni la costruzione di case, alberghi e impianti mediante l’escavazione della terra e della sabbia del luogo. Dato che non vi era proprietà privata, nessun valore veniva dato a questi materiali, e il risultato è stato l’erosione di circa il 50 per cento delle coste in meno di quarant’anni, con tutti i pericoli di frane e slavine immaginabili. I fiumi più importanti, come il Volga, l’Ob, l’Oka, lo Yenesei e l’Ural hanno registrato la scomparsa di quasi tutti i loro pesci, a causa dei rifiuti chimici, perché le fabbriche sovietiche disperdevano i propri scarichi dappertutto, senza alcun riguardo per l’ambiente circostante, visto come un unico, immenso (e tragico) “bene collettivo”. Questo ieri, mentre oggi è da paesi in piena industrializzazione come Cina e India, in cui i diritti di proprietà sono mal definiti, che l’inquinamento si espande per il pianeta, nel silenzio o quasi dei moralisti progressisti occidentali.
In Occidente, all’opposto, l’inquinamento è calato e il verde è aumentato grazie all’affermazione del sistema capitalistico basato sui diritti di proprietà e l’impresa. Riguardo all’impresa, la sua logica improntata all’efficienza la costringe, se vuole restare competitiva, ad aumentare la produttività, riducendo l’uso delle risorse scarse a disposizione per fornire al mercato i beni e i servizi con cui soddisfare i consumatori. Fare la stessa cosa utilizzando meno risorse è un beneficio per l’impresa e per l’ambiente ed è la logica capitalistica. Tutto questo, però, a patto che siano rispettati i diritti di proprietà e che i costi dell’inquinamento ricadano su chi emette sostanze nocive.    
Purtroppo, il liberismo attuale si è a lungo basato, e in parte si basa tuttora, sui precetti della Scuola di Chicago di tradizione smithiana, secondo la quale il libero mercato è preferibile perché è efficiente, non perché è moralmente giusto rispettare la proprietà privata. Secondo l’economista Ronald Coase, se un treno, passando accanto alla proprietà di un contadino provoca scintille, il giudice dovrebbe giudicare cercando di massimizzare l’utilità globale evitando magari di tutelare il diritto (naturale) di proprietà del contadino. Ma come si può misurare l’utilità globale se l’utilità è soggettiva? Di conseguenza, i tribunali dovrebbero essere consapevoli delle conseguenze economiche delle loro decisioni fino a quando ciò è possibile, senza creare troppa incertezza nel diritto. Ma decidere sulla base della massimizzazione della ricchezza invece che sulla responsabilità per i danni causati alla proprietà privata, non fa che aumentare l’incertezza di un regime basato sulla proprietà privata e sul libero scambio. E come Coase hanno ragionato gli attuali policy-makers. In nome della crescita hanno calpestato le leggi naturali dell’economia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
E come non bastasse, oggi abbiamo pure un papa ecologista. Dopo i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che diffidavano dell’ideologia ecologista intrisa di miti neopagani, Papa Francesco, con un’interpretazione tutta sua dell’etica economica francescana, ha sposato in pieno l’ecologismo più estremo che vede nell’azione umana la causa di ogni male. Da Dio padre onnipotente a Gaia madre terra. Questo sembra essere il percorso intrapreso da Papa Bergoglio, come si evince da alcuni capitoli della sua enciclica Laudato sì, i cui contenuti hanno ben poco di spirituale e sanno tanto di propaganda politica, come se di questa se ne sentisse la mancanza. Purtroppo, questo Papa non ha fatto mistero di considerare l’etica del profitto la causa principale dei mali del mondo e anche grazie a lui, quel comunismo uscito sconfitto dalla porta della storia, anche in seguito al pontificato di Karol Wojtyla, rientra dalla finestra dell’ideologia ambientalista. E questo non è un caso, se si pensa che il noto economista di sinistra Robert Heilbroner, pur avendo riconosciuto il fallimento storico della dottrina comunista, la ritiene però ancora valida se applicata all’ecologia: “È forse possibile che alcune delle istituzioni del capitalismo, come i mercati ... e la proprietà privata di alcuni mezzi di produzione, possano essere adattate alla nuova situazione di vigilanza ecologica, ma, se è così, dovranno essere monitorate, regolate e limitate in un modo tale che sarebbe difficile chiamare capitalismo l’ordine sociale risultante”.
L’ignoranza economica è la migliore alleata dell’ideologia ecologista basata sulla condanna dell’impresa e dell’etica del profitto a essa consustanziale. Solo grazie a quest’ultima è possibile l’esistenza di una società in grado di lasciarsi alle spalle i problemi legati all’indigenza. Come sosteneva l’economista austriaco Ludwig von Mises, il profitto è vitale perché permette agli imprenditori di capire che stanno impiegando le loro risorse scarse in modo produttivo. Ossia, che la libera decisione dei consumatori di acquistare i beni e servizi prodotti a un determinato prezzo è il segnale inequivocabile che le risorse scarse a disposizione dell’imprenditore sono state investite a beneficio dell’intera collettività. Risorse che, di per sé, non esistono in rerum natura. Sono le idee che creano le risorse, scoprendo i metodi per utilizzarle. Il petrolio, ad esempio, prima del 1840 era considerato un liquido melmoso che andava a inquinare i pozzi d’acqua e i campi in cui sgorgava. L’intraprendenza dell’uomo l’ha trasformato in risorsa.
Lo sviluppo economico è possibile, perché l’economia non è un gioco a somma zero in cui se io guadagno tu perdi e se io produco di più è perché ho “rubato” qualcosa alla terra. No, perché il valore, a differenza del prezzo, è il giudizio che i consumatori danno di un bene o un servizio. Se acquistano volontariamente un oggetto vuol dire danno più valore all’oggetto in questione che alla cifra spesa, mentre chi vende dà più importanza alla cifra incassata. Insomma, ci guadagnano entrambi. Ad esempio, quando il popolo era afflitto dalla miseria dava importanza a come procurarsi il cibo senza badare ai fumi della rivoluzione industriale, mentre oggi, che grazie agli effetti di quest’ultima quella miseria se l’è lasciata alle spalle, può permettersi di dare importanza alla qualità ambientale. Qualcuno lo spieghi agli ecologisti. Con e senza la tonaca.