LA GIOIELLERIA FERDINANDO VERONESI & FIGLI: 125 ANNI DI STORIE DEL TEMPO A BOLOGNA

Qualifiche dell'autore: 
titolari della Gioielleria Ferdinando Veronesi & Figli Srl, Bologna

Sembra quasi di passeggiare per le vie di una Bologna vicina e lontana, attraversata da intellettuali, scienziati, artisti, artigiani e commercianti operosi e intenti a costruire le fortune della città, mentre ascoltiamo il racconto dei 125 anni della Gioielleria Ferdinando Veronesi & Figli. Le vicende della vostra famiglia s’intrecciano, infatti, con quelle di molti bolognesi che hanno contribuito alla storia della città, e non solo. Il racconto incomincia da una bottega, e sempre dalle botteghe nascono grandi imprese. Come la vostra, che quest’anno celebra un anniversario molto speciale… Il 16 maggio 1893 apriva a Bologna la Gioielleria Ferdinando Veronesi, per iniziativa di Ferdinando Veronesi, il nostro bisnonno, al civico 3 di Via Orefici. All’epoca, ciascun negozio era identificato da un’insegna, costituita da un emblema che rendeva ben riconoscibile l’attività, considerato l’alto livello di analfabetismo.
Noi avevamo due negozi attigui, uno all’insegna del “Moro” (foto 1) e l’altro all’insegna della “Botte” (foto 2). L’insegna del “Moro” era costituita da un medaglione ovale con al centro il volto di un nobile nero, ornato di orecchini e collana d’oro. Ferdinando sperava di unire i negozi di Via Orefici, ma il proprietario di uno dei due intimò lo sfratto e il nostro bisnonno si adoperò per cercare una nuova sede, trovandola in Piazza Maggiore al civico 4, all’angolo con Via Clavature. Quella che sembrava una disdetta si è poi tradotta in una grande opportunità. In un’epoca in cui tutte le botteghe orafe erano site in Via Orefici, spostare l’attività poteva essere un azzardo, ma i portici del Pavaglione che accoglievano la nuova sede sarebbero diventati ben presto la meta elegante della passeggiata dei bolognesi.
I locali dell’attuale negozio, prima dell’acquisto, ospitavano la storica stamperia Lelio dalla Volpe, tanto nota da essere citata nella commedia teatrale di Alfredo Testoni “Il Cardinale Lambertini”. Fu necessario, quindi, effettuare lavori di ristrutturazione, che risultarono impegnativi per salvaguardare sia la sicurezza dell’attività sia la bellezza architettonica dell’immobile. In un antico libretto, scritto nel 1925 in omaggio a Ferdinando Veronesi – e che è stato ben custodito per trentotto anni dietro un quadro di famiglia – si legge che “il maestoso negozio” era il risultato di un’attenta opera di restauro, diretta dal capo mastro Alfonso Baldi, esperto nell’arte muraria. Egli ebbe cura di lasciare traccia degli elementi medievali preesistenti all’edificazione del Palazzo dei Banchi, di cui fu artefice, fra il 1565 e il 1568, Jacopo Barozzi da Vignola, noto anche per aver chiarito il concetto di “ordine architettonico” nel celebre trattato di architettura del 1562, Regola delli cinque ordini d’architettura.
Il Vignola doveva abbellire l’agglomerato di piccole case medievali nella parte orientale della piazza antistante. Il Palazzo, la cui facciata è costituita da 15 archi, di cui due consentono l’accesso alle vie Clavature e Pescherie Vecchie, è detto “Dei Banchi” perché lì erano ubicati i banchi dei cambiavalute, indispensabili per il mercato che si teneva nell’area attigua.
Quando l’Italia era divisa in tanti stati indipendenti, infatti, ciascuno di essi aveva una propria moneta e occorreva rivolgersi ai cambiavalute per l’attività del mercato.
Ultimati i lavori di restauro del negozio, il 15 aprile 1922 venne inaugurata la nuova sede della gioielleria, dov’è sita tuttora e da cui si può ammirare la Piazza Maggiore.
Una piazza nota nel mondo… Piazza Maggiore è nata in occasione della costruzione della basilica di San Petronio nel 1390, quando assunse l’assetto attuale, con l’adiacente Piazza del Nettuno e il vicino Palazzo dell’Archiginnasio, sede della prima università del mondo.
Intorno al 1860, la piazza venne dedicata al re Vittorio Emanuele II, ospitando al centro il monumento equestre che lo rappresentava (1888). Quando, nel giugno 1945, fu trasferito all’ingresso dei Giardini Margherita, la piazza ritornò a essere per tutti Piazza Maggiore.
Ogni giorno vediamo dalle vetrine del nostro negozio la basilica di San Petronio – la sesta chiesa più grande d’Europa e la quarta in Italia –, che resta l’ultima grande opera tardo gotica del paese, la duecentesca Torre dell’Orologio e la facciata del Palazzo d’Accursio, sul cui ingresso principale è posta la statua di papa Gregorio XIII, nato a Bologna e autore dell’attuale calendario, chiamato appunto “gregoriano”. Nel 1796, i cittadini di Bologna ebbero cura di salvare la statua del loro papa, spacciandola per quella dedicata al santo patrono della città, con la scritta “Divus Petronius Protector et Pater”, come si legge ancora oggi. Napoleone, infatti, rispettava le statue dei santi, ma non quelle dei papi.
La vostra tradizione orafa incomincia con il padre di Ferdinando, Raffaele Veronesi… Raffaele Veronesi sposò a Bologna Luigia Barbieri, che gli diede tre figli: Giulio, Ferdinando e Enrico Veronesi.
Quest’ultimo, diversamente dai due fratelli, è stato l’unico a non proseguire la tradizione di famiglia, perché è diventato un noto violinista, che ha suonato al Metropolitan di New York con Arturo Toscanini.
Di lui conserviamo ancora una cartolina con dedica autografa di Ottorino Respighi, suo grande amico.
Raffaele era artigiano orafo che aveva il proprio laboratorio, ma non ancora il negozio, fu quindi soltanto con i figli Giulio e Ferdinando che l’attività trovò una svolta. Ferdinando nacque il 3 giugno 1869 e fu il primo dei due fratelli ad aprire il suo negozio di gioielleria nel 1893.
Dopo l’inaugurazione nei locali siti in Piazza Maggiore, con i tre figli Torquato, Francesco e Arrigo (foto 3), aprì anche la succursale di Via Rizzoli 1. Di essa resta oggi testimone l’orologio in ferro battuto che sporge sotto il portico.
L’attività cresceva e il 17 aprile 1934, Ferdinando Veronesi assieme al fratello Giulio (che aveva aperto il proprio negozio nel 1896) ebbero l’onore di essere ricevuti a Roma dal re (foto 4). Il 10 novembre 1936, Vittorio Emanuele III concesse alla ditta Ferdinando Veronesi & Figli l’utilizzo dello stemma reale, “con la legenda ‘Brevetto della Real Casa’ sull’insegna dei suoi due negozi siti nella città di Bologna, rispettivamente in Piazza Vittorio Emanuele II, lettera T e al numero 1 di Via Rizzoli” (foto 5).
Ferdinando aveva una vera e propria predilezione per l’invenzione di gioielli e modelli in miniatura di oggetti di uso quotidiano, che realizzava in oro e con intarsi di pietre preziose. È del 13 novembre 1936 l’attestato del Ministero delle corporazioni - Ufficio della proprietà intellettuale, rilasciato per il brevetto del “Ciondolo Ibis” (foto 6 e foto 7).
Si trattava di un ciondolo augurale raffigurante un Ibis, un uccello dal caratteristico becco ricurvo, originario di paesi come l’Eritrea, l’Abissinia e la Somalia, che facevano parte dell’Africa Orientale Italiana.
L’eco del talento artistico e commerciale del nostro bisnonno Ferdinando Veronesi, e del fratello Giulio, furono tali che, poco dopo la morte, vennero celebrati in un articolo del giornale “La mercanzia” del 1952. In queste pagine venivano illustrate anche le pregevoli miniature realizzate da Ferdinando.
Siamo molto affezionati alla miniatura della fioriera da processione della Madonna di San Luca (foto 8), realizzata durante la seconda guerra mondiale come voto affinché la guerra finisse. Fra le preziose miniature da lui realizzate con grande maestria vi sono anche il carretto del gelataio, il tram a cavallo, il carro alla bolognese e ancora un piccolo altare con tre serie di sei piccoli candelieri in ottone, ciascuno corredato di candela e piattino raccogli-cera, ottenuti da piccoli vetri di orologio da donna che venivano forati con grande meticolosità.
Voi siete la quinta generazione attiva nel settore della gioielleria. Da dove viene questo talento per la manifattura? Nei racconti tramandati di generazione in generazione nella nostra famiglia, si narra di abili fabbri.
Nel 1843, quando papa Cappellari promosse la costruzione di opere pubbliche in tutto lo Stato Pontificio, a Bologna fece costruire la barriera doganale verso il Granducato di Toscana, che corrisponde all’attuale Porta Santo Stefano. Nel progetto, vi era anche un’imponente cancellata di ferro. I miei antenati furono allora incaricati di realizzarla e oggi è posta all’ingresso dei Giardini Margherita, accedendo da Porta Castiglione.
Quando eravamo piccoli e il papà ci portava ai Giardini, era solito raccontare la storia di questa cancellata, i cui stemmi in ottone sembravano d’oro ai nostri occhi di bambini.
Ferdinando ebbe cinque figli, ma soltanto tre proseguirono l’attività, fra i quali Torquato, che era anche un grande estimatore della tradizione bolognese culturale e scientifica. Marco, può raccontare qualche aneddoto sul nonno? Il nonno era noto per la sua conoscenza quasi perfetta del dialetto bolognese. Del resto aveva un valido interlocutore, essendo cognato dell’autore del Vocabolario del dialetto bolognese, Pietro Mainoldi. Ricordiamo alcuni scrittori di dialetto bolognese che andavano da lui per avere consigli sull’accuratezza e la correttezza delle parole.
La storia della nostra famiglia (foto 9) incontra anche quella di altri protagonisti di primo piano di Bologna. La nostra nonna, Laura Donini, era nata nel palazzo di proprietà di via Cairoli 6, dove al piano terra venne fondata la Weber. Nei primi anni della sua costituzione, i fratelli Donini furono in società con il fondatore dell’omonima azienda, Edoardo Weber. L’imprenditore bolognese ebbe l’idea di produrre carburatori, per miscelare l’aria con la benzina, ottenendo con questa combinazione migliori prestazioni del motore, di cui si avvalsero subito case automobilistiche come Maserati (che aveva sede a Bologna) e Ferrari.
Il nostro bisnonno, Giuseppe Donini, lasciò poi l’attività industriale.
Come è noto, la vicenda di Edoardo Weber si chiuse in modo tragico, nel dopoguerra.
Appassionato delle invenzioni di Guglielmo Marconi e della cultura bolognese, Nonno Torquato era diventato socio attivo dell’Associazione “Famèja Bulgnèisa”, che non a caso aveva eletto lo scienziato socio onorario perpetuo. Una foto del 1962 (foto 10) e un filmato che noi custodiamo lo ritraggono sul relitto dell’Elettra, la nave in cui Marconi installò il suo laboratorio e che dopo la guerra venne rimorchiata nel porto di Trieste, nel cantiere navale San Rocco di Muggia, dove il nonno si recò fiducioso di portarla a Bologna.
Ma le cose andarono diversamente.
Come vi siete accostati all’impresa di famiglia? Nostro padre, Carlo Veronesi, sembrava desiderare che non svolgessimo l’attività di gioiellieri, perché teneva conto dei tanti sacrifici che questo lavoro esige: il sabato, per esempio, noi siamo sempre in negozio pronti ad accogliere i clienti, perché è il giorno in cui i bolognesi passeggiano più volentieri in centro. Negli anni dell’infanzia, il papà ci regalò alcuni modellini di aeroplani e di navi da costruire.
Quello che per noi era un gioco divenne anche un ottimo allenamento per la manualità, tanto importante nella nostra attività. È stato quindi naturale decidere di proseguire l’attività nella gioielleria di famiglia e, sicuramente, i clienti percepiscono la nostra passione e non si stupiscono se ci intratteniamo con loro talvolta anche oltre l’orario di apertura al pubblico.
Abbiamo trascorso un’infanzia serena, punteggiata da incontri quasi magici. Come quando papà ci ha portati nella sede della Rolex, a Ginevra. Che emozione quando ci ha accolti un importante funzionario della casa orologiera! Era un signore alto e gentile, che sembrava un gigante, mentre ci ospitava in questa sede immensa. A volte una passione nasce così, anche da piccole esperienze di quando siamo ancora bambini. Sarà per questo che noi abbiamo Rolex e Patek Philippe nel cuore. La collaborazione con Rolex è incominciata nel 1932, mentre quella con Patek Philippe nel 1939, e entrambe proseguono tuttora. A testimonianza di questa collaborazione, resta nella memoria di tanti bolognesi una grande insegna luminosa con il marchio Rolex, apposta sul balcone centrale del palazzo di via Rizzoli 10 negli anni sessanta e fino ai primi settanta.
Paolo, quando avete deciso che l’attività del papà sarebbe diventata anche la vostra? Fra i venti e i venticinque anni abbiamo incominciato a interessarci al negozio. Papà aveva una grande esperienza nel settore. Ci è giunta l’eco di alcuni orologi, venduti da lui e dal nonno, che sono stati battuti nelle aste più importanti. Ricordo con una certa emozione il momento in cui ho venduto il mio primo diamante sopra il carato e sono stato molto gratificato per aver ispirato fiducia nell’acquirente.
L’attività di vendita in negozio obbliga a integrare specializzazioni in diversi ambiti con capacità differenti, che implicano aspetti sia relazionali, nell’incontro con il cliente, sia tecnici. È molto importante, per esempio, conoscere i prodotti e i manufatti che vendiamo, dagli orologi ai gioielli, dalle pietre ai metalli preziosi, come l’oro e l’argento, ma anche il corallo e poi le perle, che sono tutto un mondo a parte. Ci viene richiesta grande competenza, che si matura soltanto con tanta esperienza. Pensiamo soltanto all’argenteria. Oggi si vende meno che in passato, però, è ancora molto apprezzata da alcuni clienti: mangiare in una tavola imbandita con posate d’argento emoziona e dà ancora sapore. Esige, quindi, una certa esperienza riuscire a fare apprezzare le differenze fra gli stili e consigliare i vari pezzi da portata.
In questo lavoro, è molto importante garantire l’assistenza e la capacità di rassicurare i clienti, soprattutto quando ci affidano un orologio o un gioiello da riparare.
La Gioielleria Ferdinando Veronesi & Figli è citata anche nella prima tesi in Italia che racconta la storia della gioielleria… Nel 1995 venne in negozio una giovane laureanda, Beatrice Bignami, nostra compagna di scuola fin dall’infanzia, che ci chiedeva elementi utili alla redazione della tesi sulla gioielleria italiana, non trovando materiale in merito. Da allora è rimasta nel nostro staff, qualificandosi come una preziosa collaboratrice.