ITALIA, UCRAINA. IL CIELO D’EUROPA

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saggista, esperto di politica dei paesi ex sovietici

La mia frequentazione dell’Ucraina risale a quindici anni fa. Capitai in Ucraina per la prima volta nel 2004, all’interno di un percorso di esplorazione dei paesi ex-socialisti. Paesi che erano stati marginalizzati dalla storia per essere finiti, grazie alla spartizione del mondo fatta a Yalta, nel blocco “nemico”, ma con una profonda identità europea, se pensiamo a città come Praga, Varsavia, Cracovia, Budapest.
Nel corso di questo viaggio mi accorsi che l’Ucraina non era un luogo plumbeo, sovietico, triste come spesso veniva dipinto: scoprii un paese davvero interessante, con tante realtà differenti, un paese colorato e affascinante.
Poi, nel 2004, l’Ucraina balzò sotto i riflettori dei media mondiali, perché scoppiò la Rivoluzione Arancione.
Allora il mio interesse aumentò e incominciai a scrivere per alcune riviste della questione Ucraina, dato che nessuno se ne occupava e chi lo faceva si atteneva a una visuale molto sovietico-centrica, anche se l’Unione Sovietica non c’era più.
Mi resi conto che in Italia c’era un paradigma piuttosto fazioso nel leggere quello che stava succedendo. Nel novembre 2004 si moltiplicavano le proteste a causa dei brogli organizzati per far vincere Victor Yanukovych alle elezioni presidenziali: la gente scese in piazza a protestare, si tornò di nuovo a votare e vinse il candidato filo europeista, Viktor Yushchenko.
Ma la stampa italiana non raccontava in modo obiettivo quello che stava avvenendo e riprendeva, per lo più, quello che dicevano le agenzie di stampa di Mosca, tant’è che ci fu un intervento sul “Corriere della Sera” di Giovanna Brogi Bercoff, presidente dell’Associazione Italiana di Studi Ucrainistici, che chiedeva che l’informazione tenesse conto anche del punto di vista dei corrispondenti da Varsavia. In quei giorni, Sergio Romano scrisse che l’Ucraina doveva smettere di essere la spina polacca nel fianco della Russia. Questo articolo sul “Corriere della sera” provocò l’indignazione di Oksana Pachlovska, una delle più autorevoli ucrainiste italiane, che indirizzò una lettera a Sergio Romano che non venne mai pubblicata dal quotidiano milanese.
Sergio Romano sostiene tuttora che il più grande errore dell’Europa sia stato quello di estendersi a Est (come se la Lituania, la Lettonia e l’Estonia non fossero paesi europei), accodandosi a tutta quella tradizione di storici a cui piace tenere sempre le parti di chi vince, come il famoso storico inglese della metà del Novecento Edward Carr, inizialmente liberale e poi fiancheggiatore di Stalin.
Negli anni seguenti l’Ucraina scompare dai radar dei media italiani, fatta eccezione per le vicende riguardanti le guerre del gas tra Mosca e Kyiv. Nel 2012, quando l’Ucraina deve ospitare insieme alla Polonia gli europei di calcio, i media italiani sembrano più preoccupati delle uccisioni di cani randagi (comportamento sicuramente esecrabile) per ripulire le strade in vista dell’appuntamento sportivo che delle gravi violazione dei diritti umani che avvengono sotto la presidenza di Viktor Yanukovych, come i processi di giustizia selettiva che riguardano l’ex premier Yulia Tymoshenko e l’ex ministro degli Interni Yuriy Lutsenko, finiti entrambi dietro le sbarre perché oppositori del regime.
Questa disinformazione ha raggiunto il suo apice nel marzo 2014, quando la Russia, in barba alle convenzioni internazionali e al memorandum di Budapest, si annette la Crimea con un referendum farlocco imposto con la forza e senza alcun osservatore internazionale. E a quel punto anch’io, che spesso venivo intervistato su quel che accadeva a Kyiv, vengo bandito da ogni televisione e radio, chiaramente perché raccontavo una verità un po’ diversa.
E, quindi, mi accorgo sulla mia pelle che in Italia esiste una parola che si chiama censura. In un paese che si dichiara democratico, liberale, progressista, ma che ha una sconfinata ammirazione verso i dittatori.
Nel frattempo, diversi media scrivono che a Kyiv comanda una giunta militare, con nazisti pagati dalla CIA. Addirittura, su Rai 2 trasmettono pseudo-documentari in cui si accredita la tesi che c’è una guerra civile nel Donbas, mentre la guerra è tra le truppe di Kyiv e l’esercito dei separatisti e dei proxy russi. Quindi, tutte narrazioni molto viziate, senza sostanziali differenze tra televisioni private e pubbliche.
Adesso la situazione è pure peggiorata.
Un antisemita euroasiatico come Aleksandr Dugin viene intervistato su Rai 2, dove afferma, senza un minimo di contraddittorio, che Putin è un grande e che le forze democratiche del pianeta stanno collassando. In Italia stiamo sperimentando il primo esempio di governo influenzato dal Cremlino, perché sia la Lega sia il Movimento Cinquestelle sono partiti che fanno riferimento a Mosca.
Non ho prove che ci siano finanziamenti a questi partiti da parte della Russia, ma è vero che sono operative in Italia associazioni culturali come Lombardia-Russia, Piemonte-Russia, Veneto-Russia e altre che hanno come presidente onorario Dugin.
Addirittura a Verona, qualche giorno fa, è stato inaugurato un Centro di Rappresentanza in Italia della Repubblica Popolare di Donetsk – il secondo dopo quello di Torino, aperto nel 2016 – che è una enclave russa in territorio ucraino creata da miliziani russi e separatisti filorussi. Anche se i legami con la Lega non fossero di tipo economico, i legami a livello di vicinanza politica sono indubbi. Basti pensare che sia Salvini, un paio di anni fa, sia il Movimento Cinquestelle, con l’attuale sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano, sono volati a Mosca per stabilire un’alleanza programmatica con il partito Russia Unita di Putin. Quindi, le vicinanze e le contiguità esistono. E c’è una concordanza strana tra estrema destra ed estrema sinistra nell’essere putiniani, antieuropeisti, antisemiti, nel gettare discredito verso l’Europa, nel voler farci litigare un giorno sì e l’altro pure con la Francia e con la Germania, come se il debito pubblico italiano lo avessero fatto Berlino e Parigi.
Il mio Abbecedario ucraino è un libro storico-politico, ma anche culturale, perché l’esigenza principale è quella di far conoscere questo paese che è sempre stato indebitamente associato con la Russia. E quindi è scritto in forma di abbecedario. Avevo trovato un piccolo editore di origine ungherese che si era dichiarato disponibile a pubblicarlo, ma poi si è tirato indietro, nonostante gli impegni contrattuali, con il pretesto che gli ucraini discriminerebbero la comunità ungherese in Transcarpazia, una delle tante fake news della dezinformatsiya russa.
Ma non mi do per vinto. Gaspari, un valente editore di Udine specializzato in libri di storia, legge il mio dattiloscritto, ne rimane entusiasta e ne pubblica la prima parte, che corrisponde all’attuale Abbecedario ucraino.
Rivoluzione, cultura e indipendenza di un popolo, cui seguirà un secondo libro, incentrato sulla storia dell’Ucraina dalle sue origini. Ma era importante uscire con questo primo libro per spiegare le questioni di attualità, visto che in Ucraina, cioè in Europa, c’è una guerra, anche se questo conflitto è palesemente ignorato da tutti i palinsesti italiani.
Per riprendere l’accenno iniziale al memorandum di Budapest, fu firmato nel 1994 da Boris Eltsin, da una parte, e, dall’altra, da Leonid Kuchma, anche se poi tutti i negoziati vennero condotti dal primo presidente ucraino, Leonid Kravchuk. In base a questo memorandum venivano assicurati la sovranità dell’Ucraina e il rispetto dei propri confini, che comprendevano anche il Donbas e la Crimea. Infatti la Crimea, con il referendum del 1991, aveva votato per rimanere con l’Ucraina, decisione quasi ignorata dalla stampa italiana.
I negoziati per giungere al memorandum furono molto laboriosi, perché l’Ucraina era una potenza nucleare. Parte della scarsa efficacia nella politica interna, dell’azione del governo di Kravchuk, era dovuta al fatto che era pressato da gravi problemi internazionali: la comunità internazionale e gli stessi Stati Uniti premevano perché l’Ucraina trovasse un accordo con la Russia, perché meno erano le potenze nucleari con cui trattare meglio era. E questo ha comportato che in politica interna si facessero poche riforme e che sia intervenuta una grave crisi economica, con l’inflazione a livelli stellari e la paralisi dell’industria. Anche perché i processi produttivi dell’Unione sovietica andavano da monte a valle e ogni stato costituiva un pezzettino di questa catena del valore, per cui l’indipendenza ha creato molti problemi, soprattutto con una tecnologia obsoleta.
In più, c’era anche l’incapacità di confrontarsi con l’economia di mercato, che era sconosciuta. Kravchuk in politica interna è stato deficitario e ha commesso molti errori, anche perché doveva sottostare ai diktat dei sindacati del Donbas che premevano per salvare l’occupazione all’interno di miniere che avrebbero dovuto essere chiuse, in quanto economicamente inefficienti e pericolose per l’incolumità fisica e la salute dei minatori.
Allora, la banca centrale dovette assecondare Kravchuk emettendo moneta per finanziare un gran disavanzo, producendo così livelli di inflazione spaventosi, superiori a quelli dei paesi sudamericani degli anni ottanta. All’epoca la preoccupazione principale di Kravchuk fu quella di risolvere, anche su pressioni internazionali, la questione degli armamenti nucleari. Kravchuk, dopo vari negoziati, riuscì a trovare la quadra con il memorandum di Budapest del 1994, anche se la firma la mise Kuchma, che aveva vinto le elezioni presidenziali anticipate sconfiggendo proprio Kravchuk.
Il memorandum di Budapest (sottoscritto anche dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra), che in cambio della cessione delle armi nucleari alla Federazione Russa doveva assicurare l’integrità territoriale dell’Ucraina, non verrà rispettato vent’anni dopo, quando la Russia occuperà prima la Crimea, poi parte del Donbas. La questione si collega anche con le elezioni presidenziali del 31 marzo, perché una dei candidati alla presidenza, Yulia Tymoshenko, ha sostenuto che vuole ripristinare il memorandum di Budapest. Ma come può ripristinarlo se i russi l’hanno già violato? E pretende di farlo introducendo un altro attore, la Cina, sostenendo che c’era già. Questo non è vero perché la Cina, cui fu assegnato, assieme alla Francia, un ruolo separato di sostegno dell’integrità dell’Ucraina, non era tra i firmatari. Perché la Tymoshenko vuole introdurre la Cina, che è più amica della Russia che degli Stati Uniti? Non si sta facendo un regalo a Putin? Adesso, non voglio dire che la Tymoshenko sia un candidato filo-russo, però sostenere che al memorandum di Budapest avesse partecipato anche la Cina è falso e per certi versi inquietante.
Comunque, gli effetti delle elezioni saranno importanti, perché l’Ucraina ha preso un orientamento filo-europeo, che si è rafforzato con la firma del trattato di associazione economica con la UE e, soprattutto, dal punto di vista costituzionale, con l’abolizione di tutti gli impedimenti giuridici che non consentivano all’Ucraina di far parte della NATO. Questi passi vanno riconosciuto a chi ha governato, anche se sul fronte della lotta alla corruzione si poteva fare di più: l’unica possibilità dell’Ucraina di resistere alla sfera d’influenza e all’attacco della Russia è quella d’integrarsi in qualche modo a livello economico e a livello militare con l’Unione Europea e con la NATO. Invece, la politica multivettoriale di Yulia Tymoshenko o di Anatoliy Hrytsenko è fallimentare: nel 2019, con una guerra all’interno dell’Ucraina, con uno stato invasore come la Russia, come si può pensare di giocare tra Bruxelles e Mosca per trarne il massimo profitto? A proposito della presa di distanze dalla Russia, anche l’acquisizione dell’autocefalia (la possibilità di autogovernarsi) della chiesa ortodossa ucraina, intervenuta nel dicembre 2018, s’intreccia con la storia dell’indipendenza ucraina: non si tratta, come alcuni hanno detto, di un’indebita intromissione del presidente Petro Poroshenko negli affari religiosi, ma è semplicemente un ritorno alla situazione esistita fino al 1686, ossia fino a quando il patriarcato ortodosso di Kyiv faceva riferimento a quello di Costantinopoli. Solo dopo il trattato di Pereiaslav del 1654, firmato dall’etmano Bohdan Khmelnytskyi (che in realtà credeva di firmare con i russi solo un patto di difesa dai polacchi e dai tatari), è iniziata la russificazione dell’Ucraina, di cui ha fatto le spese anche la chiesa, assoggettata al patriarcato di Mosca. All’epoca la Russia si chiamava ancora Moscovia, solo con Pietro il Grande fu imposto il nome Rossiya e incominciò la falsificazione della storia, secondo cui Rossiya deriva da Rus di Kyiv.
Quindi, Pietro il Grande, molto abile e furbo, a un popolo con una storia legata all’Asia, ai mongoli, ai tatari, volle attribuire la tradizione culturale europea della Rus di Kyiv. Pietro il Grande esprimeva una politica imperialista, ma guardava all’Europa, tant’è che i teorici dell’Eurasia come Dugin odiano Pietro il Grande perché sostengono che questo zar abbia contaminato la Russia aprendola all’Europa. Quindi, anche un personaggio come Pietro il Grande, che giustamente dagli ucraini viene visto come un imperialista, viene odiato dagli euroasiatici perché accusato di aver ceduto alle debolezze e alla cultura europee.