I VIAGGI NELLO SPAZIO SONO SUPERFLUI?

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ex astronauta, ingegnere e militare italiano

Paracadutista, incursore, partecipante alla missione di pace in Libano, ingegnere laureato sia al Politecnico di New York sia all’Università di Firenze e soprattutto astronauta, lei è stato tre volte nello spazio: nel 2007, fra il 2010 e il 2011 e nel 2017. Molti criticano i viaggi spaziali perché sono troppo costosi e li considerano superflui, inutili e non produttivi. A partire dalla sua esperienza, invece, possiamo considerare un viaggio nello spazio come una sfida che c’insegna qualcosa di essenziale per la nostra vita? Andare nello spazio rappresenta una sfida verso quelli che sono considerati i limiti fisici dell’uomo: richiede una preparazione incredibile al fine di sviluppare capacità di adattamento a un luogo che è ostile alla vita, dove l’isolamento è totale e le condizioni estreme e impensabili. Nel vuoto dello spazio una persona morirebbe dopo un millesimo di secondo, per cui è indispensabile una struttura, come la stazione spaziale internazionale, che supporti tutte le funzioni vitali. Sulla stazione deve essere presente un controllo termico accurato e costante, perché ci si deve confrontare con fenomeni fisici completamente differenti rispetto a quelli cui siamo abituati sulla terra: trovandosi a 400 km dalla terra stessa e orbitando alla velocità di 8 km al secondo, la stazione spaziale è esposta alla luce solare per circa 45 minuti e successivamente entra nella zona buia dietro il pianeta.
Ciò significa passare bruscamente da 200°, quando si è esposti all’irraggiamento solare, a -150°, quando si è in ombra. All’esterno della stazione spaziale, costituita da un enorme traliccio della lunghezza di 100 metri, ci sono numerosi pannelli che raccolgono l’energia emessa dalla nostra stella durante la fase di esposizione. Le condizioni sono davvero estreme: anche i computer sulla stazione si rompono, perché le radiazioni cosmiche impattano sulla memoria cambiandone lo stato, un fenomeno che può avvenire anche sulla terra, sebbene molto più raramente. Tutto ciò che si porta in orbita deve essere inoltre il più leggero possibile, poiché un lancio comporta un costo di circa 100.000 dollari a chilogrammo trasportato.
Come ho accennato, la stazione spaziale orbita intorno alla terra in un’ora e mezza, per cui ci sono 45 minuti di luce e 45 di ombra: se un astronauta è all’esterno, in passeggiata spaziale, si trova a essere immerso in questi continui e drastici cambiamenti. La passeggiata spaziale è molto dispendiosa in termini fisici e richiede molto allenamento. Inoltre, è estremamente pericolosa: ci si trova all’interno di una mini navicella spaziale, che è la propria tuta, e sotto ci sono 400 km di vuoto. La prima cosa che viene da pensare è quella di essere in caduta libera e, in effetti, è proprio così: occorre sempre avere un punto di appoggio e si è assicurati alla stazione da un verricello a cui è ancorato un cavo di 55 piedi di lunghezza. Un secondo astronauta, dall’interno della stazione, indica il percorso, perché è facilissimo perdere il senso dell’orientamento.
Si è legati al cavo, ma se per qualche motivo questo si spezza o si disancora dalla stazione sono guai seri. Per questa evenienza, la NASA ha disegnato uno zainetto denominato Safer, un sistema per cui, in caso di rottura del cavo, l’astronauta alla deriva può mettersi in salvo ritornando alla stazione. In ogni caso, si tratta di un sistema molto complesso con un’autonomia di carburante limitata.
Anche il tempo impiegato da un astronauta per svolgere una qualsiasi missione è una risorsa molto costosa: viene calcolato in 100.000 dollari all’ora. Per una passeggiata spaziale, a volte necessaria per effettuare riparazioni, occorrono ad esempio 30 ore di preparazione. I canadesi hanno realizzato un braccio meccanico automatizzato, montato all’esterno della stazione, dotato di opportuni end-effector, ma si tratta tuttavia di una soluzione ingombrante che non permette di arrivare negli angoli più remoti: di conseguenza, molte riparazioni esterne devono essere effettuate dall’uomo mediante attività extra-veicolare.
Lei ha viaggiato sia sulla Soyuz sia sullo Shuttle. Qual è il migliore dei due? Sono due veicoli molto differenti.
Lo Space Shuttle, come dice il nome, è nato come “traghetto” terra-spazio.
Era progettato per svolgere cinquanta missioni all’anno, ma al massimo ne ha compiute nove, e in alcuni anni solo due. Macchina meravigliosa, ma troppo complessa e delicata, richiedeva una lunga manutenzione e ciascuna missione aveva costi elevatissimi.
La Soyuz è spartana, piccola, ma svolge egregiamente lo scopo per cui è stata progettata: portare gli astronauti in orbita e farli ritornare sulla terra. Il razzo vettore è tuttora simile a quello utilizzato da Yuri Gagarin nel 1961, l’R7, e anche le rampe di lancio, da un punto di vista tecnologico, sono rimaste più o meno quelle. La Soyuz è una 500 dello spazio: è scomoda ma funziona, i guasti sono molto rari e i costi di missione contenuti.
La differenza principale tra i russi e gli americani si avverte immediatamente nell’approccio metodologico e tecnologico: estrema essenzialità dei primi, netta ridondanza dei sistemi nei secondi. D’altra parte, questa differenza è anche frutto delle differenti condizioni economiche delle due superpotenze: mentre gli americani, dopo pochi anni, ritengono una tecnologia obsoleta e superata, i russi, che hanno sempre dovuto combattere con una scarsità congenita di risorse economiche e tecnologiche, tendono a riutilizzare per decenni gli stessi metodi e le stesse apparecchiature, apportando di volta in volta le modifiche necessarie, ma sempre a piccoli step. Non è una filosofia sbagliata: paradossalmente gli strumenti e i metodi più vecchi funzionano sempre perché sono semplici, mentre le apparecchiature di ultima generazione possono essere talmente complicate da non permettere alcuna riparazione momentanea in caso di guasto. È questa la lezione che ho imparato dal confronto fra due culture che si trovano davvero agli antipodi.