IL BALSAMICO TRADIZIONALE: UN MESTIERE ATTUALE

Qualifiche dell'autore: 
titolare dell'Acetaia del Cristo, San Prospero (MO)

“Disponibile in quantità limitate”: è difficile capire l’importanza di questa nota che si legge sul sito dell’Acetaia del Cristo accanto alla descrizione dei differenti aceti balsamici tradizionali dell’Azienda finché non li abbiamo assaggiati, non ne abbiamo apprezzato le caratteristiche uniche, e tanto inconfondibili da lasciare una memoria di gusto incancellabile, e non abbiamo imparato quanti anni di lavoro, arte e dedizione occorrono per ottenere una bottiglietta da 100 ml. Allora, incomincia la preoccupazione che le scorte si esauriscano e si debba attendere l’anno successivo…

Annualmente commercializziamo soltanto l’1-2 per cento dell’intera riserva di duemila fra botti e antichi barili di legno di castagno, ciliegio, frassino, gelso, ginepro, robinia e rovere. Abbiamo richieste per i prossimi due, tre anni, ma, anche aumentando oggi i quantitativi di produzione, occorrono almeno dodici anni per soddisfare l’aumento della domanda di tradizionale e almeno venticinque per l’extravecchio. Il balsamico tradizionale non potrà mai diventare un prodotto industriale perché la natura non lo permette: la resa del prodotto è troppo bassa e il tempo di lavorazione troppo lungo.

Lei ha incominciato giovanissima, a soli diciannove anni, a occuparsi dell’Acetaia…

Quando terminai le scuole superiori, mio padre – che aveva ereditato dalla sua famiglia il campo e la casa che ospitava l’acetaia – mi chiese se volevo lavorare con lui, e io accettai. Era un po’ perplesso, perché non mi vedeva mai usare l’aceto in cucina: allora dovetti confessare che, fin da bambina, m’introducevo furtivamente nell’acetaia per gustarlo da sola o in compagnia dei miei amici, ma comunque, senza che nessuno sorvegliasse quello che per me era quasi un rito magico.

Incominciai seguendo i corsi serali per divenire assaggiatrice, mentre di giorno, oltre a lavorare con mio padre, facevo l’impiegata, per imparare come si gestisce un ufficio. Poi, andai a vivere tre mesi a Londra per imparare l’inglese e incominciare a fare le fiere con lui. Dopo solo due o tre fiere, però, mi abbandonò letteralmente, sostenendo che ormai ero diventata brava, e iniziò a inviarmi in tutto il mondo: in Giappone, in America, in Canada e in molti paesi europei. Ma mi piaceva molto e non comportava grandi difficoltà, anche perché, tra l’altro, l’aceto si trasportava bene in valigia.

Quindi, già all’inizio avevate clienti all’estero?

Sì. Tra il ‘95 e il ‘96 la nostra quota export raggiungeva quasi l’80 per cento, tant’è che abbiamo vinto il premio per l’internazionalizzazione dell’impresa.

A vent’anni ha dovuto occuparsi anche dell’organizzazione della produzione?

L’aspetto più interessante era proprio la varietà del lavoro, perché, oltre alle fiere e al lavoro di ufficio, c’era il lavoro in campagna, che prima faceva mio padre da solo e poi ho iniziato a fare io, con qualche sua indicazione. Ma io adoro l’aria aperta e la fatica, anche fisica. E poi la giornata così era molto più lunga: tra le sei e le nove di mattina andavo in campagna, poi svolgevo il lavoro d’ufficio e poi, se avevo ancora la forza, tornavo nei campi all’ora del tramonto, che è anche l’orario migliore per pensare in tranquillità alle cose da fare il giorno dopo. Riuscivo a lavorare anche dieci, dodici e a volte quattordici ore senza accorgermene.

Ma poi c’erano altre soddisfazioni: da una parte, le vendite, che raddoppiavano ciascun anno e, dall’altra, i risultati che ottenevo nella vigna, dove vedevo crescere i buoni frutti del mio lavoro e trovavo la forza per lavorare sempre di più.

Il suo è un esempio di come gli antichi mestieri possono essere una grandissima opportunità per i giovani, che possono trovare nella tradizione anche un impulso per l’invenzione…

Sicuramente, e noi italiani siamo speciali in questo: la fantasia, la creatività e l’intuito sono quasi normali per noi e, a differenza di altri popoli, abbiamo una spiccata manualità. Non a caso in Italia l’arte e l’artigianato sono diffusissimi ed esistono centinaia di mestieri, che andrebbero valorizzati perché non si disperda il patrimonio che rappresentano per il nostro paese. “Impara l’arte e mettila da parte”, ripetono ancora i nostri genitori. E chi può essere il miglior maestro se non un genitore o colui che per anni ha coltivato un’arte che si tramanda di generazione in generazione, come quella dell’aceto balsamico tradizionale, e può trasmettere quei piccoli segreti che possono fare grande un prodotto? Solo così si può migliorare.

È così che avete inventato nuovi prodotti all’interno della tradizione, che conservano le essenze particolari dei legni in cui sono stati invecchiati?

Sono aceti invecchiati oltre dodici o oltre venticinque anni, prevalentemente in un tipo di legno: il ciliegio per un aceto tendente al dolce, al fruttato, il ginepro per un aceto più aromatico e il gelso per un aceto un po’ più morbido. L’invenzione di questi aceti è nata quasi per caso: mio padre è sempre stato un amante del ciliegio e, quando un nostro importatore svizzero lo ha assaggiato, ci ha chiesto di commercializzarlo. Poi, è stata la volta dello chef Bruno Barbieri che considerava il ciliegio ottimo per i dolci, ma, essendo un appassionato di cacciagione e di selvaggina, voleva qualcosa di più aromatico, di più forte e così abbiamo imbottigliato il ginepro. Da lì siamo passati al gelso e via via ad altri legni pregiati della nostra tradizione più antica e a nuovi prodotti.