LA MANO COME CERVELLO E FULCRO DELLA LIBERTÀ D’IMPRESA

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docente di Revisione aziendale all’Università di Modena e Reggio Emilia, presidente di PRM

Nel mio intervento a questo forum (La macchina e la tecnica. L’invenzione, l’arte, la libertà d’impresa, 10 settembre 2020), traccerò un excursus storico antropologico intorno alla mano – che costruisce utensili, quindi macchine, ed escogita tecniche – non solo come “cervello esterno”, come diceva il filosofo tedesco Immanuel Kant, ma addirittura come primo cervello.
Loredana Filippi (“LifeGate”, 2010) ci ricorda che la mano rappresenta uno degli strumenti principali del sistema nervoso centrale umano con il quale è in collegamento intenso e costante. Un numero d’innervazioni infinitamente superiore a quello di altre parti del corpo collega le mani, e specialmente la punta delle dita, al cervello. Pare addirittura che questo non possa funzionare senza che la mano sia coinvolta.
La costruzione e l’uso di utensili sono le caratteristiche che stanno alla base del cosiddetto homo faber, messo a confronto con l’homo sapiens: il primo fa riferimento a una manualità assai sviluppata, il secondo a una capacità di pensiero articolata, che però non si sono sviluppate insieme.
Infatti, i primi utensili vengono datati un milione di anni prima dell’uomo di Neanderthal, e si riscontra che la tecnicità coincide con l’acquisizione della posizione eretta, altro elemento considerato decisivo per assegnare lo status di essere umano. Questi individui – nota Elisabetta Pintus nel Primo libro di antropologia – sono considerati uomini non per il cervello, ma per il corpo e la capacità di costruire utensili: questo fa pensare che la manualità abbia preceduto lo sviluppo cerebrale, anche perché richiede aree cerebrali ben organizzate.
L’utensile non appare come un elemento esterno, ma come il prodotto della mano stessa nel corso del suo movimento di liberazione, accrescendo la massa cerebrale via via che apprendevamo l’uso degli utensili e li miglioravamo. Il cervello ha quindi seguito il progresso delle mani sviluppando l’attività del pollice opponibile, che consente di afferrare, manovrare e manipolare oggetti e materia.
Possiamo, quindi, dire che la macchina, abbinata alla tecnica, è il mezzo per realizzare con minore fatica fisica, più velocemente, forse con migliore puntualità ciò che la mano, guidando il cervello, ha ideato. Allora s’intende quanto siano preziose le iniziative volte a preservare, rilanciare, trasformare le arti e i mestieri tramandati fino a noi dagli imprenditori e dagli artigiani eredi delle botteghe del rinascimento. Per realizzare la conservazione, il rilancio, la trasformazione, sono fondamentali le macchine e le tecniche, che richiedono alle nuove generazioni d’integrare la loro formazione sul campo (il saper fare) con studi tecnici e scientifici (il sapere), inclusa la conoscenza delle nuove tecnologie digitali, che consentono di mettere in comunicazione da remoto non soltanto i vari reparti tra loro, ma anche le aziende della stessa filiera, per condividere esperienza e conoscenza.
La costruzione della macchina (l’invenzione) e la messa a punto della tecnica (l’arte) sono il risultato dell’iniziativa di singoli, poi imitati da altri, sono il risultato dell’intraprendenza (la libertà d’impresa).
La libertà d’impresa, poi, è regolata dalla nostra Costituzione, in particolare nel titolo III che, dopo le norme a protezione dei lavoratori (artt. 35-40), tutela la libertà economica. All’affermazione di un diritto e di una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e l’attività economica può essere indirizzata “a fini sociali” (art. 41). Della proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) la legge stessa può determinare i modi d’acquisto, di godimento e i limiti, “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
In tema di libertà d’impresa, quindi, la Costituzione è improntata a un pensiero costruttivo: allargamento del numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica.
Il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, non porterebbe a una società socialista con un’economia diretta dallo stato, e neppure a una società dominata dalle grandi imprese private, ma a una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata. Gli articoli successivi ne sono la riprova: la Repubblica promuove la cooperazione a carattere di mutualità e lo sviluppo dell’artigianato (art. 45), riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende “nei modi e limiti stabiliti dalla legge” (art. 46), incoraggia e tutela il risparmio favorendone l’accesso “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese” e, a tali fini “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” (art. 47).
Ma, considerando gli attacchi all’impresa e l’assenza di sostegno all’iniziativa privata, che sempre più dobbiamo constatare nel nostro paese, possiamo affermare che il programma della Costituzione sia veramente realizzato?