MEDICINA DI VITA. LA SCIENZA E LA CONQUISTA DELLA SALUTE

Qualifiche dell'autore: 
direttore Unità operativa di Urologia e Andrologia del Gruppo Multimedica, Castellanza

Scorrendo le pagine del mio libro, Medicina di vita. La scienza e la conquista della salute (Spirali), si noterà la frequenza con cui ricorre il riferimento all’esperienza dei miei maestri. Quello che ho imparato di essenziale da loro, oltre alla tecnica, è stata la prassi dell’intervento medico come approccio integrale alla persona.

La medicina non è mai stata, e mai lo sarà, una scienza nel senso comune del termine, perché ruota attorno a qualcosa che non esiste in alcuna altra scienza e che rappresenta il nucleo di quest’arte della vita: la clinica. La clinica non può essere paragonata a nulla di analogo. Non è simile alla sperimentazione fisica, è qualcosa di molto più complesso, in cui intervengono elementi oggettivi ma anche soggettivi. Deve confrontarsi non soltanto con una fenomenologia oggettiva e evidente nei sintomi del paziente, ma anche con la sua esperienza soggettiva: il sentirsi malato. La medicina deve essere rigorosamente umanistica, deve cioè ammettere che l’ambito in cui si giocano la ragione e l’efficacia del suo compito è, innanzitutto, la relazione umana.

Una medicina autentica non può accettare che la malattia venga considerata come un guasto della macchina umana, né come una variante o una variazione di parametri caratteristici dello stato di salute. La medicina deve anche occuparsi del senso e del significato del vivere. La realtà clinica ci costringe a convivere con il limite della malattia e c’invita a entrare in un rapporto affettivo con colui che la porta. E proprio qui si gioca la sfida drammatica e insieme affascinante della medicina: nell’impossibilità di separare anche i più semplici atti clinici dal coinvolgimento affettivo con l’altro, perché ci si può prendere cura veramente soltanto di ciò che si ama, ovvero soltanto di cose o persone che si sentono legate – anche solo per pochi istanti, ore o giorni – al proprio destino.

In qualsiasi modo lo si voglia intendere, come diritto o dovere, come solidarietà o carità, l’amore verso il singolo uomo fa parte dell’essenza della pratica medica. Esso solo, infatti, fonda e rende ragionevole la fatica dell’assistenza, la passione per la ricerca, la costruzione e l’organizzazione dei luoghi di cura. Solo accogliendo integralmente questa domanda di guarigione, che è innanzitutto domanda di significato, di condivisione della sofferenza, è possibile vivere da protagonisti il nostro lavoro di medici, e trovarvi soddisfazione.

Del resto, la medicina occidentale nasce originariamente dall’incontro tra la ragione, il lògos greco, e la carità cristiana. Per questo i malati, che un tempo erano temuti per la loro contagiosità, tanto da essere spesso cacciati dalle città, in epoca cristiana hanno incominciato a essere assistiti, anche quando erano considerati incurabili. E allora è accaduto che alcuni uomini hanno incominciato a rischiare la vita per curarne altri. E questo rischio va avanti da quasi venti secoli. Senza questa dedizione, la medicina occidentale non esisterebbe. Essa nasce e perdura per questo depositum all’interno dell’esperienza umana, per cui la ragione non può essere contro la carità e la carità non può essere contro la ragione. E la carità sostiene la ragione in un’avventura impossibile.

Ma se in passato ci si accontentava di alleviare la sofferenza dei cosiddetti malati incurabili, non potendo arrestare il decorso del male, e ancor meno guarirlo, a partire dal secolo scorso gli sviluppi della scienza e della tecnica chirurgica hanno consentito d’intervenire con crescente successo nella vicenda di questi malati. Così la guarigione oggi è divenuta una prospettiva spesso perseguibile, al punto di richiamare su di sé l’attenzione quasi esclusiva della medicina contemporanea, con un risvolto negativo, rappresentato dal rischio di abbandonare il paziente nel momento in cui si avverte l’impossibilità di ottenere un risultato apprezzabile, quando, invece, anche nei casi in cui la guarigione non è più prospettabile, si può fare molto per il malato, alleviando la sua sofferenza e migliorando la qualità della sua vita.

In questa prospettiva acquista rilevanza primaria la relazione di mutua fiducia che s’instaura tra medico e paziente. Nel contesto di questa relazione e sulla base della stima reciproca e della condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, può essere definito il programma terapeutico, che può portare ora ad arditi interventi salvavita ora alla decisione di accontentarsi dei mezzi ordinari che la medicina offre.

Oggi nel nostro lavoro ci basiamo su linee guida costruite a partire da valutazioni che interessano migliaia di casi e decenni di osservazioni, che sono rassicuranti sia per il medico che opera sia per il paziente, ma che non possono esaurire i possibili approcci che l’avanzamento della ricerca biomedica e tecnologica mette oggi a disposizione. A tal proposito vorrei qui fare un accenno a quanto sta accadendo per esempio per il cancro della prostata. Per questo tipo di tumore infatti, nella misura in cui puntiamo alla qualità della vita dei pazienti, possiamo oggi offrire soluzioni che, se da una parte rischiano di suscitare perplessità in alcuni addetti ai lavori, dall’altra costituiscono il tentativo di salvaguardare quelle funzioni che mettiamo regolarmente a repentaglio con i nostri interventi chirurgici tradizionali. Così, pochi mesi fa, sono stato negli Stati Uniti a Durham, alla Duke University, per il primo workshop mondiale sulla “terapia focale” del cancro della prostata, che costituisce la punta più avanzata della ricerca applicata in questo campo, dove si sono confrontate diverse scuole che davano testimonianza delle loro prime esperienze, sentendomi particolarmente interessato a questo tipo di approccio. Si tratta, in breve, di realizzare per la prostata qualcosa di simile alla “radicalità economica” introdotta qualche lustro fa per il cancro al seno in cui, se possibile, si evita di asportare l’intera mammella com’è stata prassi costante per interi decenni, praticando prevalentemente l’asportazione parziale della ghiandola o “quadrantectomia”, magari integrata dalla radioterapia e/o dalla chemioterapia. Oggi abbiamo a disposizione apparecchiature e tecniche che possono aiutare a effettuare interventi molto conservativi anche nel cancro della prostata, purché la diagnosi sia assai precoce (early cancer). In questi casi, che rappresentano attualmente una percentuale che va dal 15 al 20 per cento – ancora pochi ma destinati ad aumentare, grazie ai nuovi mezzi diagnostici –, è possibile scoprire focolai iniziali del tumore e trattarli conservativamente. Il trattamento di questi focolai, o addirittura della sola “lesione indice”, cioè del più importante fra i focolai tumorali, come può avvenire per esempio con l’HIFU (ultrasuoni focalizzati ad alta intensità), ci permette, pur controllando localmente la neoplasia, di risparmiare tutta la serie di complicazioni prodotte dall’asportazione chirurgica dell’intera prostata, indipendentemente dalla tecnica con cui essa venga realizzata (chirurgia tradizionale, laparoscopica o robotizzata).

In breve, quello che siamo chiamati a fare è rendere la medicina più umana possibile, anche se questo vuol dire talvolta pagare di persona e sperimentare, senza che il paziente ovviamente abbia a subire conseguenze negative, costantemente coinvolti in scelte che vadano in direzione della qualità. La mia esperienza mi dice che, se siamo attenti alla relazione con i nostri pazienti in quanto persone, possiamo arrivare a concordare facilmente con loro l’utilizzo di metodiche anticipatorie di prassi terapeutiche che solo nel prossimo futuro potranno essere patrimonio di tutti.