L’UOMO D’ACCIAIO

Qualifiche dell'autore: 
consulente metallurgico e scrittore

Lei ha trascorso la sua vita nella siderurgia ed è giunto a scrivere alcuni libri intorno alle qualità del ferro, fra cui 7000 anni di ferro, dal metallo celeste all’acciaio da polvere (Collana Metrusco e oggi in ristampa), divenendo consulente metallurgico in Böhler. Com’è incominciata la sua avventura nella siderurgia?

Sono nato a Longiano (Forlì-Cesena), ma per un caso a sedici anni sono entrato in Böhler come fattorino. Negli anni cinquanta, gli acciai più richiesti erano quelli da utensili, perché essenziali alla lavorazione di altri acciai da costruzione, in particolare per gli stampi per lavorazioni a freddo, a caldo e plastica fino agli acciai rapidi. E tutti dovevano avere determinati valori meccanici risultanti dalla prova di resilienza, per testare la resistenza agli urti dinamici dell’acciaio. Oggi il termine “resilienza” è utilizzato a sproposito anche in campi non metallurgici, in una fase in cui, invece, è sempre maggiore l’indifferenza in materia di industria siderurgica.

L’esperienza in Böhler è proseguita man mano nell’ufficio contabilità con il mio mentore Albino Dezza. Dopo una breve pausa, dovuta al periodo di servizio militare, sono rientrato in Böhler come rappresentante in Italia. Il mio capo mi disse: “Deve dotarsi di un triangolo, di una lente e di un magnete, perché con il magnete prova se lo stampo è temprato in modo corretto”. Se il metallo è composto da austenite, infatti, la calamita non lo attrae perché è amagnetico. Nella mia valigetta c’erano anche lime per appurare la durezza dei metalli e la lente per analizzarne la struttura come al microscopio. Noi fornivamo gli acciai ad Agusta, ad Aermacchi, alla Siai Marchetti, gli acciai per la costruzione di turbine alla Franco Tosi Meccanica di Legnano. Sono arrivato fino a Gela e a Messina, alla Rodriquez Cantieri Navali, azienda leader mondiale nella produzione di aliscafi per il trasporto privato passeggeri.

Cosa rappresentava l’industria negli anni in cui lei ha lavorato in Böhler?

L’Italia era diventato un paese industrializzato già negli anni trenta, con il boom dell’industria aeronautica. Industrie come Caproni e Siai Marchetti avevano stabilimenti in Germania e 25-30 mila dipendenti e così era anche per Aermacchi, Aerfer, Oto Melara e Arma Azzurra di Ferrara, l’industria di Italo Balbo, noto per le trasvolate atlantiche fino a New York, dove gli è stata dedicata la Italo Balbo Avenue. Poi, è incominciato lo sviluppo dell’auto, mentre Imola era nota per la produzione delle macchine tessili più innovative, con la Cogne Macchine Tessili. Le bocche da fuoco erano invece il fiore all’occhiello di Böhler, che, nella seconda guerra mondiale, con i suoi cannoni 88, distrusse 260 carri armati russi. Ancora oggi sia Böhler sia l’Italia, su tutte le armi che producono, pagano le royalties alle nazioni che hanno vinto la guerra. Poi, negli anni settanta, l’entusiasmo e la creatività erano fortissimi, nelle aziende si cercava l’innovazione a tutti i livelli.

Come ha incontrato Bruno Conti? E cosa le ha dato la siderurgia?

Ho incontrato Bruno nei primi anni settanta e ne ho seguito lo sviluppo, restando interlocutore del suo progetto imprenditoriale, fino all’investimento nella divisione di titanio, TIG, sicuro che sarebbe diventato il metallo del futuro e che Conti ne sarebbe diventato il distributore di riferimento.

Sono divenuto un uomo in Böhler, a cui devo tutta la mia fortuna, anche se il mio nutrimento intellettuale era incominciato già durante le scuole elementari, attraverso la biblioteca del nonno materno, Biagio Ferri di Montiano, che mi offriva letture di autori classici della storia greca e romana e dei poemi del Medioevo e del Rinascimento. In Böhler ho ricevuto la fiducia di Albino Dezza, Domenico Canuti, Carlo Schum e Alfonso Panzieri (un marinaio saldatore eccezionale) che mi hanno lasciato in eredità il loro portafoglio clienti come Montedison e Belleli, il precursore del nucleare. Quando sono andato in pensione, la direzione di Böhler mi ha nominato “consulente metallurgico” e poi ho incominciato a scrivere libri intorno alle qualità del ferro. La siderurgia mi ha dato la vita, perché sono nato una seconda volta nella sua lingua. Della lunga esperienza nel settore mi resta l’appellativo di un professore universitario di Parma, il quale mi aveva chiesto di tenere lezioni di metallurgia ed era solito salutarmi chiamandomi “Faedi, l’uomo d’acciaio!”.