L’APPORTO DEL SETTORE CERAMICO ALLA QUESTIONE AMBIENTALE

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presidente di Confindustria Ceramica

Gli associati di Confindustria Ceramica sono produttori di piastrelle, di ceramica, di sanitari, di stoviglierie, di laterizi e di refrattari. Su un fatturato globale di 7 miliardi e mezzo, la parte preponderante, 6 miliardi e 200 milioni, è costituita dal settore delle piastrelle, anche se oggi è difficile continuare a chiamarle piastrelle, poiché parliamo di lastre di un metro e 60 per 3 metri e 20. L’85% della ceramica prodotta viene esportata. Pertanto, occorre avere una forte competitività sui mercati internazionali.

Il nostro settore è molto attento agli aspetti ambientali. In vent’anni, grazie a copiosi investimenti, abbiamo dimezzato il consumo di energia occorrente per produrre un metro quadro di piastrelle. Negli ultimi cinque anni, prima del Covid, gli investimenti ammontavano a una media annua del 10% del fatturato, contro una media dell’industria nel suo complesso del 3-4%. Questi investimenti ci hanno consentito sia di digitalizzare gli impianti e l’operatività interna sia di diminuire le emissioni attraverso un maggior risparmio energetico. Nel 2014, abbiamo stretto un patto con gli enti territoriali proprio per il monitoraggio continuo delle emissioni, coinvolgendo la Regione, i sindacati, i sindaci dei dieci comuni fra le province di Modena e Reggio Emilia, dove si produce circa l’80% della produzione nazionale di ceramica, l’ARPA e l’AUSL. Questo patto è stato rinnovato nel 2019, con ottimi risultati, benché preceduti da anni di discussioni, perché a volte l’imprenditore, mentre è intento a fare, non vuole perdere tempo su queste cose. Le amministrazioni pubbliche e le industrie, invece, alla fine hanno agito positivamente, tant’è che in quelle zone l’aria è più pulita rispetto ai centri abitati di Modena e Reggio Emilia. Gli unici punti di sforamento sono vicini alle strade, a causa della mancanza di un asse attrezzato che colleghi 17 milioni di tonnellate di ceramica con la rete autostradale, nonostante quarant’anni di richieste da parte nostra (rimaste ancora inascoltate).

Su questa base il Forum europeo della ceramica ci ha incaricato di stabilire una norma ISO per misurare l’impronta ambientale dell’industria ceramica nel pianeta. Questo criterio è diventato costitutivo della norma ISO internazionale, forse fra le prime a certificare un processo produttivo e a misurare i valori di impatto ambientale. Dico questo anche per sfatare il luogo comune secondo cui “noi italiani siamo indietro”. Non è vero, siamo innovativi in tantissimi settori. Riguardo al PNRR, abbiamo attivato una filiera in cui abbiamo incluso le università di Bologna, di Modena e Reggio Emilia, il centro di ricerca della Regione, l’ACIMAC (Associazione Costruttori Italiani Macchine, Attrezzature per Ceramica), la Federchimica Ceramicolor (Associazione nazionale colorifici ceramici e produttori di ossidi metallici), con cui abbiamo avviato cinque argomenti di ricerca per ridurre l’impatto della CO2 nell’atmosfera, lavorando da un lato sui prodotti, dall’altro sul cambio dei combustibili e dall’altro ancora sulla digitalizzazione. Inoltre, stiamo studiando la digitalizzazione della logistica che avviene a valle delle nostre imprese, cercando di tracciarne i flussi. Infatti, stiamo lavorando per trovare uno sbocco e un collegamento ferroviario che vada direttamente dalla zona di Sassuolo al porto di Ravenna con i container.

In questo scenario si è innescata la crisi energetica. A questo proposito il TG3 (che mi ha ontervistato oggi) mi ha accusato di eccessive lamentele, segno evidente di mancata percezione dei problemi che si stanno profilando all’orizzonte. Perché, se in questo paese consumiamo 70 miliardi di metri cubi, un euro in più al metro cubo sono 70 miliardi in più da pagare. E una finanziaria è nell’ordine di 30-32 miliardi. Importi insostenibili sia per le famiglie sia per le imprese e perfino per lo Stato. Il nostro timore è che questa situazione possa vanificare gli sforzi compiuti per attuare la trasformazione energetica. Abbiamo appena chiuso un CERSAIE i cui temi principali erano la transizione energetica e la sostenibilità del prodotto ceramico, anche se la ceramica nasce da materie prime come sabbia, silicoalluminati e argille che sono sovrabbondanti sulla crosta terrestre. Purtroppo, però, siamo aziende energivore, anche se per soli 20-30 minuti nel ciclo di produzione di un prodotto ceramico, la cui vita attesa è normata a 50 anni, quanto quella di un edificio.

L’esplosione della produzione di ceramica a livello mondiale è importante. In Italia produciamo 500 milioni di metri quadrati all’anno e ne esportiamo l’85%. La produzione del resto del mondo dovrebbe essere vicina ai 13 miliardi, inclusi quei 6 miliardi e mezzo che dichiarano i cinesi, i cui dati, però, non sempre sono attendibili. E tutti questi 13 miliardi parlano italiano, perché gli impianti e le tecnologie sono nati in Italia e in ogni fabbrica del mondo trovate qualcuno che parla italiano. A me spiace sentire nei talk show che siamo indietro dappertutto, ma, se guardiamo la statistica di Bloomberg sulla salubrità, fino al 2018 eravamo i primi al mondo e oggi siamo secondi alla Spagna, che ci ha copiato il Sistema Sanitario Nazionale gratuito. Parametri come questi raccontano più del PIL. Quando un paese ha l’indice di salubrità migliore, vuol dire che i cittadini stanno meglio di altri.

Riguardo alla sostenibilità, è un termine che andrebbe declinato a vari livelli. Il primo dovrebbe riguardare la convivenza tra i popoli, che rischiamo di perdere a causa dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina; il secondo, necessario alla vita dell’uomo, riguarda la sostenibilità economica di quel che viene prodotto, senza cui non avremmo né salubrità e nemmeno transizioni energetiche, perché non saremmo in grado di investire. Con la crisi internazionale in atto, sono necessarie due tipologie di interventi. Una è determinata dall’urgenza: il primo passo è dare respiro a imprese e famiglie. In questa direzione, i miliardi che sono arrivati sono molto importanti. Una prima soluzione consiste in una moratoria sui mutui, com’è accaduto per il Covid. In questo caso il problema è anche delle banche, oltre che delle aziende, perché, se le seconde non sono in grado di rispettare le scadenze, le prime si trovano immediatamente insolvenze che non sanno come gestire. Conviene dire ad ambedue: “Fermiamo un attimo il gioco, prendiamo un anno o due di respiro e facciamo in modo che le imprese possano ricominciare a pagare”. È quello che è successo durante il Covid, non è stata un’iniziativa politica. Ricordo la prima telefonata che ho ricevuto da Banca Intesa, in cui mi dissero: “Siamo pronti a fare delle moratorie”. A seguito del loro intervento anche le altre banche si sono associate. Come Confindustria ne abbiamo parlato con l’ABI, che si è dichiarata d’accordo.

L’altro passo urgentissimo da fare è risolvere il problema dei nuovi contratti del gas e dell’energia per il prossimo anno, perché non ce li stanno rinnovando. Nel mese di ottobre le aziende che forniscono il gas non stanno stipulando alcun contratto per il prossimo anno, perché non sanno sene avranno la disponibilità e nemmeno quale sarà il prezzo. Le sue dinamiche sono state talmente volatili ed estemporanee che nel mese di agosto, quando c’era il minor consumo di gas a livello europeo, il prezzo è aumentato fino a 320-330 centesimi per standard metro cubo (Smc). Quindi non si capisce a cosa sia legato. Su questo abbiamo interessato SACE, perché dia garanzie ai compratori di energia in modo che possano stipulare i contratti in futuro, perché altrimenti chi la vende chiede delle anticipazioni, delle fidejussioni, ma non tutte le aziende hanno il “capitale di giro” sufficiente per ottenerle. Ieri qualcuno mi diceva: “Ma voi vi lamentate sempre, poi, però, avete sempre degli ottimi bilanci”. Sì, è vero per il 70% delle aziende, ma il 30% rischia di chiudere. È questo che vogliamo in un settore di queste dimensioni?

Riguardo ai provvedimenti strutturali stabiliti dal governo Draghi, uno è l’intervento a livello europeo, che può fare solo il governo nazionale. Si è parlato di price cap. Quello che ho percepito è che questo TTF (Title Transfert Facility) che fa il prezzo è uno strumento estremamente volatile. Non può andare avanti così, perché le fluttuazioni dei prezzi sono troppo ampie. Non capisco cos’abbiano fatto gli organismi di vigilanza in questi mesi e in questi anni. L’altra questione cruciale che abbiamo con l’Europa riguarda l’ETS (Emission Trading System), il sistema europeo di scambio di quote che dovrebbe promuovere la transizione energetica e ridurre l’emissione di CO2. Per chi emette CO2, l’ETS funziona come una tassa: oltre una determinata quota (gratuita), emissioni ulteriori sono acquistate pagando un tot a tonnellata. Alla fine del 2020, per queste tonnellate in eccesso di CO2 pagavamo 19 euro a tonnellata, mentre oggi il prezzo è salito a 130 euro a causa della speculazione finanziaria. Verificado chi spostava più capitali, abbiamo contato fino a 240 società finanziarie che stavano facendo acquisti in forma speculativa, bloccando la disponibilità di quote CO2 alle imprese e facendone crescere il prezzo per poi metterle in vendita. Del resto, la CO2 non si riduce con l’ideologia e la speculazione, ma con ingegneri capaci.

L’ultimo elemento che abbiamo attivato è la famosa gas release, che consiste nell’estrarre più gas nazionale per veicolarlo nelle industrie manifatturiere a prezzi paragonati al costo di estrazione e non al prezzo di mercato, così che le aziende mantengano la competitività e i posti di lavoro. Pochi giorni fa sono stato invitato dalla CGIL a Ravenna a parlare di questi argomenti perché, finalmente, il mondo del lavoro comincia a percepire che è a rischio anch’esso. Occorre maggior comunicazione con il mondo del lavoro, perché rischiamo entrambi allo stesso modo. Quel che vogliamo è che la transizione non ci venga bloccata proprio in questo momento: per noi esportatori sta diventando un elemento competitivo, perché il mondo sa che produciamo in modo sostenibile e ci privilegia sui mercati. Bisogna, però, che i prezzi che possiamo praticare siano competitivi.