LA DIREZIONE DI CHI NON RINUNCIA AL PROPRIO SOGNO

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presidente di Pagani Automobili Spa, San Cesario sul Panaro (MO)

Lei è giunto in Italia negli anni ottanta, grazie al mito dell’industria automobilistica italiana di lusso. L’Italia ha una forte vocazione culturale e artistica che trasmettete alle auto Pagani, riconosciute fra le più belle del mondo. Dopo la Huayra, che abbiamo presentato nel numero 76 della nostra rivista, oggi Pagani Automobili propone il nuovo modello hypercar Utopia, che ha un prezzo medio di 2,6 milioni di euro. Com’è nato questo progetto?

Utopia è il nostro terzo modello di hypercar della nostra storia. Il primo è la Zonda, che abbiamo presentato a Ginevra, nel 1999, la seconda è stata invece la Huayra, nel 2011. Per la progettazione di questo tipo di macchine impieghiamo da sei a otto anni. Questo modello di hypercar è stato progettato nel 2016, quasi a quattro mani con i clienti, perché il nostro lavoro consiste nell’interpretare ciò che il cliente desidera. In particolare, ci venivano richiesti tassativamente un motore a 12 cilindri, non elettrico o ibrido, e un’auto che non fosse pesante, che non avesse il computer digitale – perciò abbiamo optato per tornare nuovamente all’analogico –, che avesse linee semplici e il cambio manuale, perché i nostri sono clienti che “gustano” la macchina. È nata così Utopia, come utopica è la direzione di chi insegue il proprio sogno, un mondo ideale che non si raggiunge mai del tutto, restando un capitolo aperto. Utopia è un modo per continuare a viaggiare nella direzione del proprio sogno utopico. Già un anno prima della presentazione, avvenuta recentemente a Milano, abbiamo venduto i primi 99 modelli e altrettanta è la richiesta per quelle che incominceremo a consegnare in agosto 2023.

Voi producete la cifra delle automobili della Motor Valley agli estimatori di tutto il pianeta. Quali sono le sue constatazioni intorno all’industria in Italia?

La maggior parte dei nostri fornitori è costituita da aziende leader ciascuna nel proprio settore, come Bosch, Mercedes AMG, Pirelli. Ma noi continuiamo a servirci anche di aziende artigianali italiane che, per esempio, producono due sedili, e non diecimila, a settimana. Attività come queste spesso sono costrette alla sopravvivenza dal carico insostenibile della burocrazia di questo Paese e noi cerchiamo di supportarle assicurando loro commesse. A questo si aggiunge la difficoltà di trovare collaboratori, in particolare con una grande manualità: chi acquista le nostre auto non lo fa per sfrecciare a 200 all’ora, ma per l’italianità che le rende uniche, per la cura nei dettagli. In prospettiva, il problema che sta emergendo è rappresentato, spesso, dalla mancanza di collaboratori che proseguano la tradizione del fondatore di queste aziende artigianali. Un’altra annosa questione è poi rappresentata, più che dalla mancanza di un’efficace formazione tecnica, dalla mancanza di motivazione da parte del candidato lavoratore. Si è poi sviluppato molto il senso del dovuto più che il senso del dovere: spesso l’aspettativa diffusa è di guadagnare molto e subito, quasi con l’idea di fare la scalata per raggiungere posizioni apicali e ottenere riconoscimento sociale. Invece, per fare questo lavoro, occorre avviare un percorso di formazione che richiede anni di ricerca e di esperienza. Mai come oggi il compito fra i più impegnativi per chi dirige un’impresa è motivare i collaboratori, anche se spesso tutte queste attenzioni non sembrano bastare. E non è questione di soldi, perché manca proprio l’interesse e la dedizione al proprio lavoro. È difficilissimo trasmettere il messaggio secondo cui il lavoro dà dignità, perché spesso è messo al secondo posto, inteso come usurante, quasi come se togliesse qualcosa alla vita anziché costituire un’opportunità irripetibile della vita. A questo si aggiunge il problema della mancata trasmissione dell’esperienza artigianale alle nuove generazioni di lavoratori. Le istituzioni potrebbero intervenire impegnandosi ad attuare una vera integrazione dei giovani immigrati, per esempio, dal momento che oggi molti italiani non sono più interessati a svolgere mestieri artigianali, che rischiano di scomparire. Il restauro della nostra casa in campagna è stato effettuato da bravissimi artigiani turchi. In Germania sono state attuate politiche d’integrazione molto efficaci, che per esempio promuovono il lavoro nelle industrie.

Forse in Germania non sono diffusi il pregiudizio sull’industria e la dicotomia fra l’attività artigianale e quella industriale, come invece spesso avviene in Italia. Come può essere attuata una vera integrazione senza la promozione dell’industria di ciascuno? Questa è la lezione del secondo rinascimento in Italia, di cui diamo alcuni echi in questa rivista...

Non è un caso se in Italia sta avanzando la deindustrializzazione. Fino a dieci anni fa circa avevamo una trentina di industrie, come Fincantieri, Piaggio eccetera, mentre erano più di duecento in Germania. Oggi, ne contiamo ancora meno e FIAT sta chiudendo molti stabilimenti, perché in Francia il Gruppo Stellantis ha fabbriche più moderne e più efficienti. Quindi, abbiamo perso la nostra industria e stiamo perdendo anche il nostro artigianato. L’industria ha bisogno dell’artigianato per vivere e le cosiddette piccole industrie spesso sono costituite da grandi artigiani, noi ne siamo un esempio. Ma, negli ultimi vent’anni, gran parte dei prodotti a prezzi stracciati arrivano dalla Cina, che peraltro ha un mercato del lavoro con regole che spesso contravvengono i diritti umani e la cura dell’ambiente. Quando i media parlano di sostenibilità e di ambiente, non considerano che la maggior parte dei prodotti cinesi che importiamo contribuiscono all’inquinamento, oltre che alla massificazione e allo svilimento del prodotto deprezzato. Basta considerare soltanto i costi ambientali che comporta il trasporto di quelle merci, spesso prodotti non necessari ai bisogni vitali. Una grande nave che trasporta, per esempio, container dalla Cina consuma 100000 litri di carburante all’ora, e si tratta di carburante di pessima qualità e molto inquinante, non come quello che usiamo per le automobili. Curioso che invece il primo imputato d’inquinamento siano sempre le auto. Occorre un maggiore equilibrio quando si parla di questo problema. Vicino alla nostra casa in campagna c’è un allevamento di grandi dimensioni, dal latte di queste mucche viene prodotto il Parmigiano Reggiano. È noto che questi allevamenti inquinano più di fabbriche come la nostra. E la mia famiglia dovrebbe lamentarsi di questo o piuttosto essere felice di promuovere un prodotto dell’eccellenza del made in Italy?

Oggi, possiamo constatare quanto sia assente un vero dibattito sull’inquinamento a favore dell’ideologia contro l’industria, automobilistica in particolare...

Nel 2018 abbiamo incominciato a lavorare intorno al progetto di un’auto completamente elettrica, anche se nessuno ce l’ha mai chiesto. Da quando abbiamo avviato questa scommessa, ho chiarito ai giornalisti che questo progetto non nasce dall’esigenza di avere un mondo più pulito, ma da un’opportunità di business: compito dell’imprenditore è creare opportunità. La macchina elettrica pesa il 40% in più dell’auto standard. Inoltre, più del 90% dell’energia oggi viene prodotta con risorse inquinanti: il carbone, il petrolio e il gas. Il 10% è costituito per l’1-2% da quella eolica, il 5% da quella idroelettrica e il resto dal nucleare. Per caricare la batteria di un’auto come Tesla (oppure di un’auto elettrica, in generale), dovremo utilizzare il carbone e il petrolio. Occorre dire con chiarezza che la produzione di energia elettrica non è esente da inquinamento. Perciò, metaforicamente parlando, non inquino perché giro a Bologna con l’auto elettrica, ma perché a San Cesario uso il carbone per produrre l’energia che alimenta l’auto elettrica. Continuare a dire che l’auto elettrica non inquina è ideologico, come la maggior parte delle normative emanate dai politici europei. Se, per esempio, a Milano devo collegare la presa nell’interruttore per caricare l’auto elettrica, non posso stirare i vestiti perché manca l’energia necessaria a fare entrambe le cose. Perché invece non è promossa la trasformazione dei rifiuti in energia? Dobbiamo essere consapevoli che se perdiamo l’industria, se perdiamo l’artigianato di questo Paese, avremo cittadini che non troveranno più occasioni di lavoro, ma soprattutto avremo uomini e donne indifferenti alle ragioni della vita.