LA CERAMICA COME CIFRA DELLA CASA

Qualifiche dell'autore: 
consigliere delegato di Elios Ceramica S.p.A.

Le ceramiche Elios sono note in oltre cinquanta paesi del mondo come una delle migliori espressioni della tradizione e della creatività made in Italy. Dal 1968, la vostra azienda ha portato avanti l’obiettivo di dare alla ceramica un alto valore estetico, tanto da definirla la “Dea della casa, la cifra stilistica di chi ci vive”. In che modo questo è stato ed è tuttora riconosciuto dal mercato?

Le nostre dimensioni ci hanno portato a specializzarci in una nicchia, che il mercato ci ha più o meno riconosciuto, e il fatto di rimanere coerenti, nel tempo, con la nostra scelta è apprezzata dai nostri clienti. È chiaro che abbiamo rinnovato la nostra offerta di anno in anno, con proposte adeguate ai tempi, ma sempre in linea con la mission dell’azienda che intendiamo mantenere inalterata anche nelle scelte del domani.

Anche perché ci sono ancora clienti che chiedono prodotti classici e piccoli e non li trovano perché la maggior parte delle aziende si orientano sul trend, che oggi è sempre più propenso verso i grandi formati...

Se ragioniamo in termini assoluti, è vero che il trend normalmente propone, in base al momento, determinati stili, formati e design, ma in termini relativi esiste sempre una quota, che alcune volte può essere una nicchia, altre un segmento, dove un’azienda come la nostra può e deve cercare di proporsi. Noi, in questi anni, siamo sempre stati riconosciuti per la produzione di rivestimenti per il bagno e la cucina in piccoli formati, e su questa linea continuiamo tuttora.

Nelle province abbiamo ancora ottime chance, perché chi ristruttura un casale in campagna è portato a utilizzare prodotti legati al cotto rustico e alla riproposta del colori tipici dei maiolicati, piuttosto che ai colori “cemento’’, che invece può essere idoneo e richiesto in un loft di città. Anche se sembrerà un controsenso, quando altri produttori abbandonano queste nicchie ci favoriscono.

Ma il vostro diventa anche un servizio dal punto di vista della varietà dell’offerta per i clienti, che così non sono costretti ad acquistare il prodotto che impone il mercato...

I clienti lo stanno riconoscendo, ma in alcuni momenti, quando le quote delle aree in cui siamo presenti si riducono eccessivamente, siamo costretti a cercare nuovi mercati e aree di sviluppo. Per esempio, la Cina, da molti reputata un problema, per noi rappresenta un’opportunità: non essendo produttori di piccoli formati, i cinesi sono interessati alla nostra offerta. È il tipico esempio in cui si può trovare una soluzione dove altri vedono un problema.

Certo, in alcuni momenti, quando il trend proponeva prodotti più vicini alle nostre collezioni, tutto era più facile, mentre oggi lo è meno. E tuttavia ciascun rivenditore continua a riservare un angolo in cui la Elios può trovare spazio con i propri prodotti.

Lei lavora da oltre trent’anni nella Elios, che ha sede nel distretto ceramico italiano. In che modo si è trasformato il distretto e che cosa occorre per il suo avvenire?

Occorrerebbe sicuramente più politica di distretto. Ho sentito tante volte in associazione alcuni proclami del tipo “Cerchiamo di essere concorrenti fuori dai cancelli, ma alleati nelle fabbriche”, formula estremamente vera. Noi ci avviciniamo a questo modo di pensare con estrema difficoltà rispetto a altri settori più maturi, dove si applica perfettamente: per esempio, nel settore della moda, espressione massima del made in Italy, le fabbriche che producono per i diversi marchi sono pochissime, due o tre gruppi che producono per tutte le firme. Stabilire sinergie produttive non vuol dire però avere un prodotto uguale dal punto di vista del mercato: importanti firme italiane pur molto diverse nelle loro proposte o nello stile con cui si contraddistinguono spesso producono nello stesso sito specializzato in un capo. Questa potrebbe essere una strada per abbattere alcuni costi e combattere meglio sui mercati esteri. Sarebbe più semplice lavorare attraverso nuove sinergie produttive di gruppo, pratica in cui gli spagnoli, per esempio, riescono meglio e senza stravolgere il loro modo di lavorare. Alcuni anni fa, per esempio, quando hanno deciso di entrare nel mondo del gres porcellanato, ambito in cui gli italiani erano avanti dieci anni, hanno costituito alcuni consorzi, mettendo in comune le navi per il trasporto e i silos e affrontando tanti investimenti di gruppo: diversi concorrenti si sono uniti per trarre comuni benefici. Si potrebbero fare una miriade di altri esempi, ma il più simpatico e significativo è quello delle fiere, in particolare negli Stati Uniti, dove alcuni anni fa gli spagnoli arrivavano sempre con un charter dell’Iberia, con costi ridicoli rispetto a ciò che spendevamo noi italiani, che viaggiavamo ciascuno per conto proprio, ma con tariffe decisamente superiori. Se, anche in queste piccole cose, non riusciamo a essere alleati, come possiamo pensare di esserlo nei grandi progetti? È chiaro che le cose possono cambiare se si siedono intorno a un tavolo i primi cinque o sei gruppi del settore, che coprono oltre il 60 per cento del fatturato del distretto e trovano una vera collaborazione di cui tutto il settore può beneficiare.

E il made in Italy in che modo può giovare all’avvenire del distretto?

In un mercato sempre più globale come quello della ceramica, il made in Italy può essere una delle principali armi per differenziarsi dai competitors stranieri che propongono prodotti dal punto di vista qualitativo ormai paragonabili ai nostri. Il made in Italy come concetto deve essere giocato meglio, deve essere il marchio che contraddistingue prodotti pensati, studiati e in modo particolare prodotti in Italia, ciò che per altri settori rappresenta il “doc”: garantendo, cioè, che quella piastrella nasce esclusivamente nel nostro territorio.

Questa credo che sia, al momento, la strada su cui il comprensorio dovrebbe investire di più per cercare di distinguersi.