LA DONNA, LA MASCHERA, LO SPECCHIO

Qualifiche dell'autore: 
giornalista e scrittore, già direttore del quotidiano “L’Unione Sarda” e collaboratore della pagina culturale del “Corriere della Sera”

Per intendere la maschera di cui io parlo, cerchiamo di capire quale differenza poniamo nel linguaggio comune tra faccia, volto e maschera. La faccia ha a che fare con la fisiognomica, eppure, quando interviene la metafora: “Ha perso la faccia”, “Che faccia tosta”, c’è un rimando non fisico, non fisiognomico, ma, in qualche modo, simbolico.

A proposito del volto, si dice: “Ha mostrato il suo vero volto”. Perché, ci sono altri volti? Che rapporto c’è tra questi volti e il vero volto e quale economia intercorre in questa molteplicità di sembianze?

E, infine, le maschere, le maschere che noi usiamo nella fenomenologia quotidiana, nella psicopatologia quotidiana, nei rapporti di buona creanza, una maschera diversa da mattina a sera, a seconda degli interlocutori. Siamo capaci di usare molte maschere, mettiamo la maschera della bellezza. Allora, c’è un’accezione negativa delle maschere, nel senso di una logica della finzione: io mi maschero, intendendo comunicare in un certo modo e non in un altro. “Gli ho tolto la maschera”, come dire ho scoperto questo gioco di finzione e lo restituisco alla sua vera identità. Quindi, vediamo quale complessità opera all’interno di questa scansione figurativa di volto-faccia, volto-maschera.

Al contrario, nella maschera tragica dei Mamuthones di Mamoiada, dei Boes-Merdules di Ottana e dei Thurpos di Orotelli, la maschera ha un’altra valenza, non ha a che fare con il mascheramento, non è qualcosa che io prendo e attribuisco al volto, dicendo al mio volto che è la verità della mia persona. Né è la maschera della storia dell’arte, come tipologia psicologica, non ha niente a che vedere con la psicologia questa maschera tragica sarda, non interviene per caratterizzare, per significare, non ha significato, non intende dire che, attraverso la maschera, io nascondo una particolare struttura emotiva, percettiva, simbolica, immaginaria. La maschera non ci specchia, se togli la maschera incontri un’altra maschera, incontri ancora la maschera, non c’è un togliere la maschera perché il volto appaia.

In una sfilata a Milano, a Piazza Duomo, l’irrompere dei Mamuthones ha un po’ sconvolto la gente, che ne ha avuto quasi paura, perché sono maschere violente, nel loro gestire, nel loro fare, perché non sono animali e non sono uomini ed è una tensione tra l’animale e il dio. Allora, dicevano gli spettatori in Piazza Duomo: “Toglietevi la maschera, vogliamo vedere chi siete”. Questo presuppone sempre un’identità, che la maschera, nell’ordine del tabù, traviserebbe. Assolutamente, questa logica psicologica, ma anche la logica semiotica, è del tutto fuorviante. La maschera non è segno di qualcosa, non è segno di nulla, la maschera è sintomatica e dice di un cambiamento radicale, una disidentità totale, senza possibilità d’identificazione.

Nel mio libro preciso come questa maschera, sotto forme diverse, si articola anche nel linguaggio. Per esempio, prendiamo la mascheradella negazione: il sardo nega sempre per affermare, per dire “Antonio è intelligente” dice “Non è tonto Antonio”, c’è sempre un “non” che interviene. La negazione è strutturale, è una maschera, è un meccanismo di rimozione e di resistenza. La tagliatura dello sguardo non è mai diretta, frontale, lo sguardo mai pieno, limpido, chiaro, a occhi aperti. Aprire gli occhi per vedere fallisce l’impresa. Per vedere, per intravedere, lo sguardo deve essere obliquo, devo chiudere le palpebre per mettere a fuoco e allora lo sguardo è persecutorio, è percussivo, è introiettivo, perché c’è una trasversalità e una messa a fuoco, mentre l’ingenuo crede di vedere la realtà nella fantasia della visibilità piena, dello sguardo osservante e decodificante, dello sguardo che analizza i segni, conosce il codice ed interpreta i segni. Siamo nel campo dell’ermeneutica, dell’interpretazione. Al contrario, nella maschera sarda non c’è interpretazione. L’antropologo crede davvero di svelare un mistero e lancia una traiettoria prospettica di comprensione per ulteriori studi, ma la maschera si sottrae totalmente a questa possibilità di analisi.

La donna, invece, non può mascherarsi, non può essere Mamuthone, né Boe, né Thurpo, perché la donna è la maschera per eccellenza, la donna è la maschera. Ma è la maschera costitutiva, la donna non prende la maschera, c’è questa coincidenza piena di maschera e donna. L’uomo tenta di svelare questa maschera e costringe la donna dentro uno spazio e dentro un tempo, è importante controllare la libertà assoluta del femminile dentro un codice simbolico maschile, quindi, c’è un sistema di simboli fallici che delimitano il territorio. La donna non deve superare l’orizzonte della circoscrizione fallica del simbolismo maschile, perché altrimenti è ingovernabile, imprendibile. In domo istat femina, la donna deve stare a casa, la donna deve essere “ben parlata”, cioè deve controllare la parola, possibilmente usarla poco e comunque dentro il codice simbolico maschile, perché altrimenti la donna, per conto suo, non terrebbe in nessun conto il codice simbolico maschile, perché parla un altro linguaggio, un linguaggio a vanvera, cioè in assoluta libertà, creativo, non disposto dentro un saper parlare, quel saper parlare che è l’etica comportamentale discorsiva del maschio. L’uomo ha paura di questa libertà della donna perché avverte che, se non ci fosse questo controllo, non ci sarebbe società, (sine femina non vatta sosietà) senza donna non può esserci società, non può esserci comunità, perché la donna è straripante, la donna è vitale, la donna è creativa, ha la vita dentro di sé, crea.

Non a caso l’uomo è escluso dalla stanza del parto e dalla stanza del cordoglio, del pianto rituale, perché l’uomo non sopporta il corpo morto, mentre la donna il corpo morto lo tocca, lo lava, il figlio morto ucciso da una fucilata, la madre lo tocca, ci parla e canta un attitu, un canto che è attitu, significante che viene dal verbo attittare, “dare il seno”, dare sa titta, come una funzione salvifica rigenerante, risuscitante, e canta del figlio per la colomba della Pasqua che era il sole della famiglia. Mentre l’uomo non è capace di toccare il corpo, l’uomo pensa al corpo da vendicare, all’uccisore da uccidere, nell’ordine vendicativo, ma non sa fare i conti con il corpo morto del figlio. E allo stesso modo è escluso dalla stanza del parto. Quindi, i simbolismi maschili hanno difficoltà ad organizzare, se non rimuovendola, una relazione profonda con la nascta e con la morte. E allora ecco la Deledda che dice nel suo romanzo Cosima, che c’è un’eredità solo femminile, che è un’eredità del narrare, un’eredità della parola non controllata dal maschile, una specie di trasmissione delle stirpi vergini, dice la Deledda. L’uomo ha paura di questa incontrollabilità della donna e tutta la logica culturale maschile è dentro l’ordine etico, la legge, la morale e il comportamentismo. Ecco perché la donna non si maschera. Sarebbe un gioco, un giochetto. La donna è la maschera.

Anche sul versante dello specchio c’è una differenza: la donna si guarda allo specchio. Ma la donna, guardandosi allo specchio, non lo fa in funzione narcisistica, non è come Narciso alla fonte. La donna si guarda allo specchio in una traiettoria di visibilità maschile, cioè pensa come possa essere seducente rispetto allo sguardo maschile. In questo senso non è un riflesso esclusivamente narcisistico ma è proiettato sullo sguardo di lui, su come lui la vede. Invece l’uomo ha paura dello specchio, nella tradizione sarda l’uomo ha paura del riflesso sull’acqua perché il riflesso sull’acqua, del fiume, della fonte, è cangiante, ed è in una traiettoria di sprofondamento, lo attira, come in una dimensione mortale. L’uomo ha paura di guardarsi allo specchio perché non c’è garanzia di un rapporto di necessità tra lui e il riflesso, può manifestarsi una svista, nel muoversi improvvisamente, un ritardo nel movimento o un anticipo. Per questo l’uomo rimuove lo specchio, per lui non esiste il doppio. La donna crede nel doppio, per lei riappare, riviene da un altro mondo il defunto, appare e parla alla donna nel cimitero; e la donna dice alla comare: “Eh, l’ho visto oggi, era un po’ triste mio figlio morto annegato, come se avesse una malinconia, ieri mi sembrava più sereno”, un discorso improponibile per il maschio, il maschio lo rimuove: “Este mortu e mortu resta”, non posso comunicare con lui, quel fantasma non deve apparire, non deve entrare nel mio mondo, c’è un limite invalicabile, tra l’aldilà e questo mondo. “Gli abbiamo fatto il lutto a dovere, abbiamo fatto le preghiere, abbiamo fatto il nostro dovere, dunque, lui non deve apparire, appartiene a un altro universo che è l’universo delle sembianze”. La donna invece crede nella sembianza, crede nella relazione senza trovarla contraddittoria, pur trovandola perturbante.

Certo, c’è un passaggio notevole in questo processo di modernizzazione. La donna, oggi, in fondo, si guarda allo specchio in funzione di un riconoscimento, si trucca, vuole annullare la ruga, la ruga che è nella logica del tempo, la ruga che dice del percorso del corpo nel tempo, e quindi che ha una funzione di grande valore, vuole annullarla perché crede nel corpo liscio, nel corpo dalle carni di bimbo, dolci carni di bimbo. Perché oggi lo specchio è diventato lo specchio del riconoscimento, oggi lo specchio deve essere perfetto, bello: “Io non voglio uno specchio che non mi rende bello, lo specchio mi deve rendere bello, io mi devo riconoscere. Il mattino spesso non mi riconosco molto, sono sciupato. La notte, la caligine e il buio mi sciupano un po’ e io, quando vado davanti allo specchio, mi vedo brutto, mi vedo male. Allora, subito intervengo con la cosmesi salvifica e il corpo diventa liscio, senza buchi. E finalmente dico: io sono io”. Questo è l’effetto dello specchio globale, lo specchio contemporaneo, lo specchio che tende a non porre in maniera perturbante il rapporto. Ma il rapporto è terribile: chi c’è dietro lo specchio? Io? Sì e no. Io, sì, però anche un altro, il perturbante è qualcosa di conosciuto e qualcosa di sconosciuto, qualcosa di familiare e qualcosa di estraneo. Quindi, c’è, per un verso, un riconoscimento e, per l’altro, un’inquietante estraneità. E succede che vi guardiate allo specchio e diciate: “Per carità, non sono io, non mi riconosco”, perché il riconoscimento deve essere nell’ordine del riconoscimento pieno, nell’ordine della piacevolezza, nell’ordine di un “Adesso sì, l’identità è garante”.