LA LIBERTÀ, LA FINANZA, LA COMUNICAZIONE

Qualifiche dell'autore: 
docente di filosofia teoretica all'Università Statale di Milano

Un punto di partenza interessante per la nostra conferenza potrebbe essere un evento culturale che ha tre secoli e che suscitò molto scalpore a Londra, in Inghilterra, e poi in Europa: la pubblicazione di una breve favola, scritta da un olandese che si era trasferito a Londra, medico di grande successo e anche filosofo, che si chiamava De Mandeville. In questa favola, che divenne rapidamente famosa, si parlava di un alveare dove le api, che erano simili agli uomini, avevano organizzato una società estremamente complessa, dinamica e imprenditoriale, sempre più ricca, sempre più potente, sempre più ammirata e temuta dagli altri alveari. Qual era il segreto di tanto successo? La risposta di De Mandeville, estremamente cinica, suonava così: “I vizi dei suoi cittadini”. Infatti, la favola immaginava questa società come ricca e potente, grandiosamente ammirata, ricca nelle scienze e nelle arti – fra l’altro, non soltanto nell’industria e nelle imprese –, ma profondamente corrotta: una società in cui c’erano squilibri economici molto rilevanti, dove la giustizia veniva esercitata in difesa dei più potenti e dove soltanto i poveracci venivano veramente colpiti. La favola immaginava che, poiché c’era anche tanto malcontento, le api si lamentassero e Zeus, sentendo questo brusio, intervenisse rendendo le api virtuose. La cosa genera una catastrofe: divenute virtuose, un po’ alla volta, tutta la loro ricchezza, il loro ingegno, le loro innovazioni, la loro potenza e i lori averi vengono meno, e questa società, un po’ alla volta, perde migliaia, milioni di membri e alla fine si riduce a pochissimi individui che si nascondono nel buco di una quercia.

Che cosa voleva dire questa favola? Che cosa aveva capito De Mandeville? Aveva scoperto che la logica che guida la valutazione morale e quella che guida la valutazione economica non sono le stesse. La presunzione, l’invidia, l’orgoglio, l’avidità, la mancanza di generosità e la rapacità costituiscono l’impulso verso il lusso, e quindi sono tutte cose deprecabilissime, che chi va in chiesa dovrebbe confessare come vizi della propria anima; però, il lusso mantiene, come egli dice più volte, milioni di poveri: guai se non ci fosse il lusso, intere categorie della società andrebbero in rovina. Non solo, ma andrebbero in rovina l’ingegno, il cervello, il lavoro intellettuale, l’invenzione, l’innovazione, la gara nel far meglio, nello scoprire sempre cose nuove, quindi, le arti e le scienze.

Certo, dice De Mandeville, in una società di pochi membri, che è costituita da persone che si conoscono a vista, non c’è bisogno dei vizi, anzi, le virtù sono utili, in particolare quelle che mirano alla solidarietà e all’aiuto reciproco. In queste piccole società, la virtù premia gli individui e si può immaginare che le virtù private abbiano per effetto una virtù pubblica. Ma, in una società dove i membri sono centinaia di migliaia o addirittura milioni, accade una cosa imbarazzante per tutti noi: neppure il più feroce dei tiranni riuscirebbe a far sì che noi lavorassimo come lavoriamo per forza della sua imposizione, mentre ci riesce benissimo questa società dove ciascuno di noi lavora per un altro ma a fini propri. È vero, è verissimo, ciascuno di noi lavora per gli altri ma non gl’importa assolutamente niente degli altri, lavora per gli altri per fini propri: il cappuccino e il cornetto che trovo al bar non sono stati portati certo per amore della mia colazione. Il principio che regge la società è che tutti ci diamo un gran da fare, perseguendo il nostro utile privato personale, che possiamo però perseguire soltanto perseguendo l’utile di qualcun altro, e quanto più questo utile si espande, quanto più questo utile diventa socialmente condiviso, tanto più noi siamo ricchi e potenti. Accade, come dice De Mandeville, che in questa società, multiforme, profondamente corrotta, totalmente lontana da ogni principio etico, il benessere dei poveri è molto maggiore del benessere dei ricchi nella piccola società.

Infatti, perché non ha funzionato la società socialista? Perché il comunismo russo è fallito? Perché si è trovato di fronte a due ostacoli insormontabili: il primo è che gran parte di quella società era costituita in fondo da piccole comunità agrarie, arcaiche, nelle quali vigeva il principio secondo cui la virtù privata premiava la virtù pubblica, ma società del genere non possono essere né differenziate, né capitalistiche, né imprenditoriali, né ingegnose, non possono, insomma, dar luogo a quel profitto generale, a quella sorta di conseguenze e di sviluppi che sono invece tipici di una società complessa, laddove nessuno ha in mano il fine, ma tutti, seguendo il proprio, arricchiscono l’insieme. Ma poi c’era un altro aspetto, forse ancora più rilevante, e cioè il fatto che anche la presenza di uno stato tirannico non serviva a convincere i cittadini a lavorare, non riusciva a ottenere quello che una società pluralistica, come la intendiamo oggi, ottiene senza nemmeno proporselo, ossia quello che tutti noi facciamo, sottoponendoci a fatiche indescrivibili per i nostri scopi e del tutto al di fuori da qualsivoglia organizzazione razionale.

Mi pare evidente che De Mandeville sia stato uno dei primi, se non il primo in assoluto, a comprendere che in una società multiforme non si può dirigere l’economia dall’alto, e tanto meno in base a principi morali, perché i principi morali si ritorcono contro chi li persegue, mentre, i principi amorali, se non immorali, non di rado producono effetti positivi per tutti. Di fronte a una denuncia così grave e dura, si può capire come nel corso dei secoli ci sia stata una forte reazione metafisica, filosofica, etica, morale, cristiana, marxista, contro questo modo di vedere le cose. Tuttavia, alcuni aspetti di questa descrizione sono ancora innegabilmente attuali, e ancora innegabilmente non abbiamo dato una vera risposta alla questione sollevata da De Mandeville.

Allora, tentiamo di capire cosa c’è dietro questa favola così efficace e al tempo stesso così imbarazzante e inquietante, partendo da una questione: che cosa caratterizza il cittadino, quali sono i tratti che lo delineano? Sono tanti, naturalmente, io però vorrei indicarne due come fondamentali. Un primo tratto è quello che potremmo definire simbolico e un secondo potremmo definirlo segnico. Che cosa ci caratterizza nella nostra natura di cittadini come simbolici? Il simbolo è quella parte che allude al tutto, noi siamo parte di un tutto, siamo simbolicamente legati, prevalentemente, alle nostre origini e al nostro passato. Noi siamo prima di tutto la concreta mano che fa le cose, che ha imparato a plasmare gli oggetti dalla propria tradizione, simbolica nel senso che è ereditata dai propri genitori, dalla terra in cui ciascuno è nato, dalla lingua che ha nella bocca, che è la lingua dei suoi antenati. Noi ci amiamo, ci odiamo, ci sentiamo nei corpi, ci trasmettiamo attraverso i corpi, diamo la vita con i nostri corpi, siamo legati simbolicamente in un’unità complessa che però è un’unità profondamente radicata e che è incancellabile, è qualcosa che ci guarda dal passato, che si ripete dal passato. Ma noi non siamo soltanto questo, anzi, proprio perché siamo esseri umani, perché non siamo soltanto legati all’ancestralità dell’atto sessuale originario, siamo anche una società che dall’animalità sacrale si è sempre più allontanata, proprio perché della parola degli antenati abbiamo fatto un segno comunicativo propulsivo, abbiamo costituito su questa base simbolica, sulla mano, il cervello, l’intelligenza. Proprio per questo ognuno di noi è anche un soggetto segnico, comunicativo, noi siamo essenzialmente soggetti comunicatori, cioè dotati di linguaggio, di uno strumento che va al di là della mano: la comunicazione parte certamente dalla mano, però su questa base poi costruiamo tutta l’astrazione segnica del linguaggio comunicativo, un po’ alla volta lo introduciamo nell’intelligenza dei segni. Ma che cos’è l’intelligenza dei segni? Vorrei ricordare la frase bellissima del filosofo americano Charles Sanders Peirce: “Noi siamo lì dove produciamo effetti”. Questo vuol dire, per esempio, che, da un punto di vista simbolico, io sono qui con il mio corpo, con le mie mani, con la mia lingua, però, nello stesso tempo, io non sono soltanto qui. I relatori che mi hanno preceduto vi hanno invitato a comprare il mio libro: già questa sollecitazione dice che io sono anche là, nel mio libro, e, in quanto sono nel mio libro, sono dovunque vada il mio libro. Ma ciascuno di voi è ovunque, ciascuno di noi è là dove produce effetti, quindi, siamo nei nostri amici, nei nostri conoscenti, nei nostri partner di lavoro, siamo in tutti i telefonini attraverso i quali comunichiamo, in tutte le lettere che scriviamo, nelle e-mail, e così via. L’elemento simbolico è quello che si ripete dalle nostre origini, ma l’elemento segnico è quello che invece guarda il futuro, è quello che dice ciò che si farà del mio messaggio: come dice Peirce, ciascuno è là dove produce effetti.

Allora abbiamo due aspetti del cittadino, due facce del cittadino: la prima costituisce il fondamento di una società arcaica, ma indistruttibile, perché per ora almeno i bambini li facciamo al vecchio modo; ma ad essa si associa quella che già De Mandeville intuiva, la società complessa della comunicazione, del messaggio, dell’intelligenza, del cervello, del produrre effetti artificiali imprevedibili, incontrollabili, perché sono rivolti al futuro, e questa è sostanzialmente la natura di ciò che chiamiamo in occidente democrazia e società capitalistica, società legata al denaro. Infatti, è ovvio che il denaro è proprio lo strumento ideale per questa diffusione, io sono là dove le mie finanze portano delle conseguenze, sono a Hong Kong, perché in quella borsa compro e vendo. E questo ha conseguenze vantaggiose per tutti.

Ma credo che vi siano almeno due considerazioni critiche da rivolgere a chi pensa che questa sia l’unica via percorribile: l’accumulazione del potere nelle mani di pochi perpetua in maniera costante una situazione di squilibrio, cioè noi oggi siamo molto consapevoli del fatto che una società democratica è una società che deve avvicinarsi il più possibile alle pari opportunità di tutti, ma perché vinca il migliore devono prima esserci le pari opportunità che non c’erano nella Londra del tempo di De Mandeville e non ci sono state dopo. Come già Smith e, sopra tutto, Ricardo previdero molto bene, tutto ciò avrebbe dato luogo a rivoluzioni e a sommovimenti. Non è vero che queste situazioni di squilibrio siano inevitabili e, quindi, vanno ingoiate come una medicina amara: esse sono determinate proprio da quei vizi di cui parlava De Mandeville, i quali non sono necessari, non sono indispensabili. Una società ricca e opulenta, ricca di possibilità, in continua espansione, può essere creata anche dando condizioni di maggiori equità in partenza.

La seconda considerazione è più sottile: dice De Mandeville – e tutti i teorici del liberismo hanno ripetuto la stessa cosa – che l’economia va lasciata libera, va lasciata fluttuare, perché ciascuno, seguendo il proprio interesse, produce involontariamente il bene di tutti. Se questo è apparentemente vero localmente, settorialmente, non lo è quando noi tocchiamo i limiti estremi di un’economia liberistica. Tutto questo è stato vero finché c’è stata una valvola di sicurezza, (ex contadini prima, colonie poi) per potere ammortizzare il prezzo sociale dello sviluppo economico. Oggi abbiamo come ultima risorsa il Terzo mondo, che non è affatto un mondo che semplicemente pesa sull’occidente e che esige dall’occidente di essere in qualche modo salvato dalla fame: queste sono conseguenze e ritorni di situazioni prodotte in larga misura dall’occidente, che lì disloca il più possibile i centri produttivi per trarre profitti da prestazioni senza tasse, senza mutua, senza pensione, senza assicurazione sul lavoro, a prezzo di pura sussistenza. Si dice, ragionando esattamente come De Mandeville, che la logica del mercato produrrà alla fine una ricchezza: incrementando la produzione, lo scambio, l’economia finanziaria, ci sarà un prezzo da pagare, ma alla lunga avremo un incivilimento generale, un progresso generale. Ma questo è vero finché noi abbiamo una riserva, finché il prezzo di tutto ciò può essere pagato da qualcuno: nel momento in cui chiudiamo il cerchio, e non dico che ci siamo vicini, quando con la globalizzazione abbiamo toccato tutti gli ultimi estremi confini del pianeta terra, questo ragionamento mostra la sua perversione, mostra che questa cosa funziona solo là dove qualcuno ne fa le spese, e non per una fatalità dell’economia o per una fatalità dell’essere umano, ma, per dir così, per un’eredità, per una sorta di peso storico che ci portiamo dietro.

Allora, c’è un problema rilevante, che mi consente di comprendere gli inviti di Armando Verdiglione verso un secondo rinascimento, che credo vadano in questa direzione. Cosa significa farsi carico del lato comunicativo e segnico dell’essere umano, del fatto che io sono là dove produco effetti? Due cose io credo vadano indicate: la prima è una straordinaria rivoluzione, che esigerà molto tempo e un’attuazione certamente faticosa e probabilmente anche molto contrastata: finora si è lavorato e si è pensato in base a principi, la società si è data dei principi, ha cercato di arginare la violenza, la frode, la corruzione, attraverso principi, perlopiù disattesi, perché come dice bene De Mandeville; queste cose vanno in qualche modo regolamentate perché non travolgano la società civile, ma anche lasciate avvenire, altrimenti sarebbe un danno gravissimo per tutta una serie di conseguenze. Allora, se i principi moderano il vizio ma non lo cancellano, forse è venuto il momento di abbandonare i principi e di cominciare a ragionare in termini di conseguenze. Siamo là dove produciamo effetti? Ebbene, impariamo a calcolare gli effetti, stabiliamo una logica delle conseguenze, impariamo a capire cosa significa imporre la banca mondiale o la borsa mondiale o il mercato globale, cosa significa per tutti, non soltanto per coloro che ovviamente ne traggono dei vantaggi; la nostra informazione non ce lo dice, ce ne dà vaghi accenni ogni tanto, poi trascura l’argomento. Questa è la prima questione, proporre un’etica non dei principi ma delle conseguenze. È una rivoluzione etica grandiosa da realizzare, non si realizza naturalmente attraverso una frase, bisogna immaginare ad esempio una democrazia dei controlli, che non abbiamo mai avuto, che nessuno stato ha mai sognato di realizzare perché è troppo scomoda.

La seconda questione mi vede ulteriormente in sintonia con quel che dice Armando Verdiglione. Abbiamo bisogno di cultura, abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale, nel senso che la settorialità dell’azione di ciascuno di noi, che finora ha costituito il fondamento della società civile, non basta; noi non possiamo produrre persone che hanno soltanto la cultura dei propri interessi, di quel che fanno, abbiamo bisogno di portare l’intelligenza, la mente, al livello della complessità del messaggio, delle comunicazioni e delle conseguenze, quindi, non possiamo essere soltanto competenti delle nostre mani. Questo vuol dire, per esempio, cancellare completamente l’università, rifarla su un modello che in Italia potremmo generosamente ispirare al Rinascimento, vuol dire rifare quelle cose che nel Rinascimento tenevano uniti la mano e il cervello, il segno e il disegno. Potremmo pensare appunto a Leonardo, a Michelangelo, a una visione cattolica della cultura – che non vuol dire religiosa, cattolica nel senso di tener insieme – per costituire una comunità di sapienti. Questa sapienza non c’è più, noi produciamo medici che settorialmente sono bravissimi, ma oggi un medico deve sapere molte più cose di quelle che richiede l’esercizio semplice della medicina, per esempio, non solo la chimica che c’è nei farmaci che prescrive, ma l’economia che c’è dietro le case farmaceutiche. E un po’ lo sa, perché è un uomo che vive nel nostro tempo, ma non può farci nulla, deve subirla. Invece noi vogliamo che non la subisca, che sia un uomo dotato di saperi e poteri, in grado di entrare in questi meccanismi che stanno sopra di lui. Soltanto questa rivoluzione potrà dimostrare che De Mandeville si sbagliava. Finché noi non faremo questo, De Mandeville mantiene tutta la sua attualità e le sue descrizioni sono molto vicine alla nostra esperienza, sono le più corrette, giustificano e danno ragione della vittoria del liberismo sul marxismo e su tutte le religioni e le tendenze morali.

Allora, da un lato, occorre il rovesciamento dai principi alle conseguenze, se noi siamo là dove produciamo effetti; dall’altro, se siamo una società di segni, di comunicazioni oltre che di mani, dobbiamo imparare a governare le comunicazioni. Ma per fare questo non basta soltanto dire che dobbiamo considerare gli effetti, dobbiamo imparare cosa vuole dire ragionare in base agli effetti e farne una questione di decisione etica comune. E questo implica una grande rivoluzione verso una cultura secondorinascimentale e non di specialismi e tecnicismi.