DIO E LA POESIA

Qualifiche dell'autore: 
scrittore, esperto di finanza

Le religioni monoteistiche e finanche, al loro interno, le correnti reputate tra le più “ortodosse”, sono disseminate di incrostazioni gnostiche. Il mio tentativo è stato quello di definire il rapporto tra Dio e la poesia affrancandomi, nei limiti del possibile, da queste incrostazioni gnostiche. Come ha influito lo gnosticismo, in particolare, su Eugenio Montale? Ritengo che la gnosi di Montale, espressamente ispirata all’eresia nestoriana, sia particolarissima e geniale e che, in particolare, la poesia Antico, sono ubriacato dalla voce, fortemente gnosticizzante, sia di respiro universale. È stata scritta più o meno negli stessi tempi in cui Rilke componeva Le elegie duinesi che, a dispetto dell’assoluta, innegabile genialità erano, per alcuni aspetti, di stampo marcatamente platonico. Per Rilke, infatti, il poeta agisce, per certi versi, come il poeta di Platone (vedasi lo Ione), obbedendo a un’ispirazione numinosa, che, “novando” audacemente la poetica di Rilke, potrebbe identificarsi nella “scintilla” gnosticizzante che costringe il poeta a “divinare” facendosi “megafono” di un’entità estranea. A differenza di Rilke, Montale (nient’affatto platonizzante) ha precorso in modo geniale tanto la linguistica e la semiotica contemporanea (pensiamo agli studi di Roman Jakobson), che hanno indagato in modo raffinatissimo la complessa grammatica sottostante al codice linguistico della poesia, quanto la poetica per così dire “linguistica” di Jabès e di Zanzotto. È stato, in particolare, Jakobson a indagare e definire i processi di selezione e di combinazione che avvengono all’interno del testo poetico, definendo il codice linguistico che viene attivato all’interno di qualsiasi poesia. Va detto, infatti, che a ogni poesia sottostà una grammatica complicatissima, che si vale del principio di contiguità tra le parole (lungo la duplice direttrice dei processi di selezione e combinazione); servendosi di tale grammatica, inoltre, il poeta compie, nel corso dell’iter inventivo, un processo abduttivo, cioè mira a indovinare esso stesso tanto il percorso intermedio quanto l’esito finale della poesia, differendo parola dopo parola l’idea originaria che si concreta attimo per attimo.

In questo possiamo riscontrare la grandissima modernità di Montale rispetto a Luzi. Per Luzi, la poesia sarebbe il modo per raggiungere la “promessa diafania”, cioè, in guisa dantesca, la poesia sarebbe il modo per raggiungere l’essere “eterno, inconsumato e uguale” . Per Dante la poesia era colei che conduce“ colà dove la verità s’invera”. Noi moderni sappiamo che così non è, la poesia non conduce dove “la verità s’invera”, non porta alla “promessa diafania”, ma si colloca, per così dire, nell’endiadi (come vedremo). La poesia, infatti, è sempre un esercizio ermetico e secondo, è sempre una scrittura totalmente seconda, ritardataria (come, secondo Derrida, qualsivoglia scrittura). In ciò, la poesia non è poi così diversa dal romanzo, che si può definire, secondo Gadamer (ma anche secondo Propp, Ricoeur ed anche il modello di “attanzialità” di Greimas) un gioco a più variabili, all’interno del quale a ogni personaggio è assegnata una funzione, e laddove il gioco abduttivo conduce ad un esito e a una agnizione finali, che illuminano retroattivamente la configurazione “necessaria” dispiegata dal poeta. Questo dipanarsi del gioco abduttivo, che comporta il perpetuo differimento della presenza del poeta, non è altro che un’idea di insieme perpetuamente differita sino all’ultimo verso, sinché questo non finisce per illuminare retroattivamente il gioco abduttivo, differitorio della presenza del poeta, ovvero di colui che, nel corso del componimento, non ha mai saputo pervenire a qualsivoglia presenza “trascendentale”. Ha dato vita, invece, il poeta, a un gioco abduttivo, in cui la presenza del poetante è una traccia perpetuamente differita che si delinea retroattivamente, e solo in quanto traccia esilissima, solo alla fine della composizione poetica. Si tratta di connotazioni comuni anche al romanzo e, con taluni differenze (vedasi il Congdom), alla pittura: colui che dipinge differisce, ridefinendola sino alla pennellata conclusiva, l’idea compositiva pennellata dopo pennellata, così come il romanziere, istante per istante, ridefinisce idealmente idea la configurazione complessiva dell’intreccio romanzesco. Così, la poesia, che non può darsi se non nelle vesti di un gioco perennemente differitorio, è sempre maceria e rottame, secondo Montale. Nella poesia Antico, sono ubriacato dalla voce, il Dio-mare riesce a svuotarsi subito di ogni lordura, a buttare le alghe, le asterie, i sugheri sulle sponde, svuotando istantaneamente il suo abisso (potente icona gnostica) di ogni maceria, con palese richiamo allo tsimtsum (contrazione sistolica-diastolica) di Jizchaq Luria, ossia del più potente pensatore gnostico della tradizione ebraica. E Montale, prendendo nettamente le distanze dal platonismo (in particolare dallo Ione) pare dire, in ultimo, al Dio-mare: io poeta non mi credo degno della tua lezione, perché attraverso il gioco poetico, che è un esercizio abduttivo e perennemente differitorio della mia presenza (e di quella del lettore), della lordura non riesco a svuotarmi e la poesia che compongo è la lordura “stagnante”, e mai subitaneamente dissolta e “rinnovata”, che consegue a questo differimento perpetuo di presenza, a questo gioco abduttivo. Il disprezzo, tutt’altro che platonico (benché anche Platone disprezzasse la poesia) di Montale, era il disprezzo per la poesia, per questa scrittura invariabilmente ermetica e seconda.

Il fuoco divinatorio della poesia consiste proprio nel desiderio di raggiungere una presenza trascendentale attraverso i versi, di possedere finalmente il presente (si potrebbe dire di pervenire alla persuasione, nel linguaggio dell’opera La persuasione e la rettorica di Michelstaedter). Questa presenza trascendentale, per effetto della tensione abduttiva e del perpetuo differimento di presenza, non viene mai raggiunta né dal poeta né, tantomento, dal lettore. Non altrimenti sosteneva Jabès: “La verità di Dio è nel silenzio, ma non possiamo inseguirla che attraverso le parole, e queste, purtroppo, ci allontanano sempre dalla meta”. Così, l’alternativa del poeta, e anche dell’uomo comune, è quella tra il gioco abduttivo e differitorio di presenza, che allontana ogni volta dalla meta del raggiungimento di una presenza trascendentale (la pulsione creativa), e la cessazione di tale gioco abduttivo e differitorio, ovvero il silenzio, la morte del poeta (la pulsione di de-creazione), che potrebbe approssimare anche la kenosi perfetta e totalmente “passiva” del mistico cristiano.

Come interferisce questo con l’ortodossia religiosa? Nel libro sostengo che una pulsione de-creativa monastica e unilaterale costituisce un atteggiamento gnostico e, in quanto tale, inortodosso. Perché non è ortodosso? Mi riferisco, in particolare, al trattato Sanhedrin del Talmud, probabilmente il più importante del Talmud, dove si assiste a una fondamentale disputa tra rabbi Jochanan e rabbi Levi. L’oggetto della disputa consiste, in particolare, nello stabilire quale sarà la ricompensa nel mondo a venire, al di là dei tempi messianici. rabbi Jochanan (famoso per la gravità e la mestizia) sostiene che sarà il vino conservato nei grappoli d’uva dal sesto giorno della creazione. Il vino, in altri termini, è già stato creato, a uno stadio di perfetto e definitivo invecchiamento, all’interno del grappolo d’uva. Quindi, lo studioso della Torah, all’indomani dell’epoca messianica, otterrà questa ricompensa: il significato originario della Scrittura. Se il significato originario è conservato nei grappoli d’uva dal sesto giorno della creazione, ciò significa che esso è il più semplice, come osservato da Lévinas. Vi sarebbero, così, un significato e una verità originari che vanno al di là del dato letterale, e pertanto sono intangibili dall’ermeneutica biblica. Ciò significa che la storia umana, in quanto evolvere del senso come lettera e come storicità, è una progressiva complicazione, una progressiva divagazione dal senso originario, una perenne dislocazione della verità “prima”. Da una tale constatazione, a mio parere, non potrà prescindere il fedele che intenda porsi nel solco dell’ortodossia (anche se dovrà “combinarla”, in un’endiadi “vertiginosa” e irriducibile, in quanto endiadi “prima”, con l’opposta constatazione secondo cui la divagazione dal significato originario, e quindi l’evolvere del senso come lettera e come storicità, fa comunque parte del disegno provvidenziale di Dio). Ciò significa che non c’è origine e non c’è apocatastasi, in quanto il significato originario deve considerarsi come dato in partenza: la storia non è ritorno all’origine, bensì divagazione, seppure provvidenziale. E secondo rabbi Levi, che si oppone a rabbi Jochanan, a dispetto dell’intangibilità del significato originario delle scritture, l’evolvere del senso come lettera e come storicità recherebbe, appunto, una certa fecondità. Le due opinioni, come invariabilmente accade nel Talmud, vengono a comporre un’endiadi originaria e quindi “irriducibile”.

La dottrina di rabbi Jochanan è, peraltro, profondamente anticipatrice: molti secoli più tardi Spinoza, ripudiando l’ermeneutica talmudica (e, a mio parere, anche l’afflato logico-noetico di stampo grecizzante che, sempre a mio vedere, sottostava a questa), ammetterà come unica, possibile interpretazione della Bibbia quella letterale. Ciò significa che non v’è sostanza sotto il testo, non esiste un essere tangibile del revelatum, cosicché ogni interpretazione che miri alla sostanza, all’essenza ontologica e al “centro” del testo, finirà per tradire e dislocare in altro da sé il testo medesimo. Ora, la poesia, in quanto universo propositivo di senso, tramite il suo gioco abduttivo, perennemente ritardatario, non compirebbe essa stessa una medesima divagazione dal senso “primo”, ovvero dal significato originario? Non si compirebbe, in tal modo, la profezia di rabbi Jochanan? E tuttavia, la profezia di quest’ultimo non va forse, come si è detto, collocata in originaria, vertiginosa e irriducibile endiadi con l’opinione di rabbi Levi, secondo cui l’evolvere del senso come lettera e come storicità, e quindi il dipanarsi della scrittura (di questa “traccia” ermetica e seconda) fa parte del disegno provvidenziale di Dio? L’ortodossia dell’esercizio poetico non andrebbe forse riconosciuta proprio situando la poesia in tale endiadi originaria, e, di più, identificandola proprio quale medium dell’endiadi stessa? In che modo si opponeva Montale a tale visione, come rigettava un tale afflato ortodosso? Tentando di situarsi al di fuori dell’endiadi, cessando di poetare (e quindi facendo prevalere la pulsione di de-creazione, a scapito di quella di creazione), cioè provandosi a svuotarsi immediatamente della lordura, come il mare. Ma svuotarsi immediatamente della lordura della scrittura significa tendere al silenzio, cioè cessare di poetare, visto che la poesia è un gioco abduttivo e differitorio di presenza, in quanto tale sempre “divagante” dal senso originario. Ma l’ortodossia di ogni esercizio poetico consiste nel riconoscere che la poesia, pur configurandosi quale “divagazione” dal senso, forma pur sempre una “traccia” provvidenziale, anche in senso storicistico, del medesimo: in altri termini, se così si può dire, nel provvidenziale “non voler trascendere l’intrascendibile”.

Se il poeta volesse abbandonarsi con perfetta inerzia al flusso kairologico del tempo, senza scavare alcuna traccia abduttiva e differitoria di presenza, perseguirebbe una sorta di mistica de-creativa e gnosticizzante (alla Simone Weil, per intenderci), e in quanto tale inortodossa. Gli hassidim evitavano di studiare il Talmud, così come i seguaci di Abulafia fissavano la propria attenzione sulle lettere della Torah, perdendosi in tale contemplazione anti-ermeneutica e di stampo palesemente gnosticizzante. Così tentavano, in altri termini, di accostarsi alla sfera del pleroma, dell’En sof, dell’astratto originario.

La poetica di Montale a cui mi riferisco non si approssima forse a un tale abbandono gnosticizzante (e seppure constatando l’assenza, nel poeta, di qualsiasi scintilla gnostica)? Si colloca, invece, nell’endiadi Betocchi che, nella poesia A cuci e scuci, si paragona al tetto di coppi toscano che si arrampica, persiste e resta (operando con ardore quell’esercizio abduttivo e differitorio di presenza in cui consiste la poesia), e al tempo stesso vorrebbe anche permanere silenzioso, lasciando che parli il cielo di là da esso: in altri termini, il poeta scava una traccia abduttiva e differitoria (proprio persistendo e restando in sé in quanto “traccia”) ben sapendo, al contempo, che si tratta di una traccia del senso e non del senso medesimo (e quindi aspirando, al tempo stesso, in prodigiosa, vertiginosa e irriducibile endiadi, al silenzio necessario per raggiungere il senso “primo”).