IL PIACERE DEL RESTAURO

Qualifiche dell'autore: 
presidente del Museum of the second renaissance e del Club del secondo rinascimento

Intervista di Sergio Dalla Val

Oltre che presidente del Museum of the second renaissance e del Club del secondo rinascimento, lei è scrittrice e presidente della casa editrice Spirali. Quando e perché è incominciata questa attività di coordinamento dei lavori di restauro e di arredo, ormai giunti alla conclusione, della Villa San Carlo Borromeo?

È una lunga storia. La Villa San Carlo Borromeo, immersa in un parco secolare, a 12 km dal centro di Milano, sorge su una collina artificiale, nell’VIII secolo a. C., base di un insediamento celtico. Successivamente, i romani vi costruirono la loro roccaforte, utilizzata già da Giulio Cesare. Poi, toccò ai longobardi trasformarla in una loro fortezza. Sulle sue rovine, nel Trecento, i Visconti costruirono il “palazzo”, chiuso sui quattro lati. Fu Federico Borromeo (1564-1631) nel 1629 a abbattere un lato. Nel 1630, egli accolse nella Villa i migliori teologi del tempo, per sottrarli alla peste di Milano. Altri interventi furono compiuti da Giberto Borromeo (1671-1740), che completò l’arredamento, aggiungendo mobili, lampadari, splendide opere d’arte a tutto ciò che già Federico aveva posto. Nel suo testamento, Giberto vincolò gli eredi al rispetto del restauro da lui ordinato e diretto e dell’integrità degli arredi. Nel 1911, Fausto Bagatti Valsecchi (1843-1914) diresse un altro restauro, secondo i criteri dell’epoca. Il committente era Febo Borromeo d’Adda. Durante la Repubblica di Salò, le SS occuparono la Villa, arrecando gravi danni. Dopo la loro ritirata, sono state poste, sulla facciata del Museo Sant’Ambrogio, a uno degli ingressi della Villa, due stelle di Davide. In sette secoli, molti raccontano di avere frequentato la Villa, da Leonardo da Vinci agli scrittori e artisti sforzeschi, da san Carlo Borromeo a Pindemonte, da Diderot a Stendhal, da Manzoni a Croce, da Verga a Pirandello e, più recentemente, da Eugène Ionesco (1912-1994) a Jorge Luis Borges. Nel 1983, l’Università internazionale del secondo rinascimento ha acquisito dalla famiglia Borromeo la Villa e il parco, lasciati da oltre vent’anni in stato di abbandono. Il terrazzo era crollato, il tetto era danneggiato, gl’infissi erano rovinati. L’edera aveva eroso i muri e il parco era quasi inattraversabile. Il primo importante restauro mirava, quindi, alla salvaguardia dell’edificio. Da allora, il restauro è proseguito fino a oggi, con criteri rigorosamente conservativi, grazie anche alla collaborazione di esperti, consulenti, tecnici, storici, filologi, ingegneri, architetti, sempre sotto la direzione della Soprintendenza ai beni Ambientali e Architettonici di Milano. Esso ha riguardato il parco, fra l’altro reinserendo, con rigore filologico, piante scomparse negli ultimi due secoli; l’edificio principale (tetto, terrazzo, solai, camini, statue e pietre, bassorilievi, balconi, infissi, scale e scaloni, camere, bagni, sale, pareti e soffitti artistici, seminterrati, interrati); i tre Musei del parco (Museo Sant’Ambrogio, Museo Sant’Eustorgio, Museo San Protasio); il Museo della Ghiacciaia; la peschiera; il muro di cinta e i tre cancelli d’ingresso. Sono stati compiuti approfonditi e accurati studi storici, archeologici, filologici, geofisici, statici, architettonici, pittorici, riscontrando ciascuna volta la linguistica specifica di questo restauro: sculture, camini, archi, cancelli, stemmi, statue, infissi, balconi, portali, porte, marmi, disegni, pitture. Impiantistica, illuminazione, telematica, arredi, opere d’arte, mobili: tutto è stato selezionato e definito in ciascun dettaglio, e è entrato a fare parte integrante del restauro come restituzione in qualità. Oggi, la Villa è la sede dell’Università internazionale del secondo rinascimento, della casa editrice Spirali, di fondazioni e associazioni di carattere socioculturale, ospita congressi, corsi, seminari, riunioni conviviali di enti pubblici e privati italiani e stranieri, e è anche la sede di un Museo permanente e di un Museo per grandi mostre. Ma è anche l’icona del secondo rinascimento, il salotto intellettuale, imprenditoriale e finanziario di Milano, il palazzo del turismo culturale e artistico. La Villa ospita, inoltre, l’Hotel Villa San Carlo Borromeo, a cinque stelle lusso, il Ristorante San Carlo, il Borges Café e i loro numerosi servizi, tra cui il catering, che porta i sapori, la finezza e la magnificenza della grande cucina della Villa anche altrove.

Non dev’essere stato semplice porre una villa del rinascimento nelle condizioni di risultare operativa oggi…

Su 10.000 mq di edificio abbiamo provveduto alla ricostruzione di due ampi terrazzi, al consolidamento dei solai, al rifacimento dei tetti, dei sottotetti, con i loro saloni, e delle pavimentazioni, al recupero di vasti seminterrati, al restauro di tratti del muro perimetrale, alla ripavimentazione e al restauro dell’atrio e della fontana, al restauro di statue, mosaici e marmi, balconate, scale, bagni. Abbiamo lavorato per il restauro degli affreschi, dei legni, dei pilastri storici e dei tre cancelli di accesso, dei camini e di tutti i dettagli, compresi anche gli altri edifici nel parco, che circonda la Villa, bellissimo e maestoso, per 11 ettari. Il restauro, oggi, è quasi compiuto per quanto attiene alle camere, alle sale, al Museo. Sarà arricchito nel corso dell’anno con altri seminterrati, con il sottoatrio (un salone di 1200 mq, per il quale abbiamo ottenuto le autorizzazioni), con l’impianto delle acque reflue, altri tratti del muro di cinta, i bagni della sala ristorante, il terrazzo occidentale e con ampi lavori nel parco e nell’antica ghiacciaia.

Che cosa ha comportato un restauro così complesso?

A un certo punto, è intervenuta, da parte mia, la decisione di assumere la responsabilità e la direzione di questa grande opera. Andava seguita, giorno per giorno, con un coordinamento e una direzione costanti, per evitare errori, ritardi e sprechi. Ho pensato che, se mi fossi presa cura di questa impresa, l’avrei portata a conclusione. Questo ha comportato una collaborazione strettissima con gli architetti, gli ingegneri, i tecnici, i consulenti; una ricerca in tutta Italia, ma sopra tutto in Lombardia, di artigiani e di personale specializzato; lo studio di questioni tecniche e tecnologiche che esulano dall’ambito dei miei studi. Non potevo certo imparare tutte queste cose ma occorreva, parlando con i tecnici, capire. È seguita una scelta accurata dei materiali, rigorosamente nell’ambito di ciò che esisteva già nella Villa: marmi, beole, graniti, cementi dipinti, legno. Abbiamo utilizzato alberi del parco, tagliati perché colpiti da un fulmine o malati, per il restauro dei pavimenti. In ciascuna stanza siamo entrati con il legno dei nostri alberi: rovere, acero, frassino, pino.

Restituire quel che non c’era comporta stabilire l’originario?

Dal lavoro di redazione, di traduzione e di cura dei libri, dalla clinica, ho imparato che, quando traduciamo un testo non dobbiamo entrare con la nostra idea, fosse anche la più bella, ma dobbiamo cercare di restituire in un’altra lingua quel testo. Possiamo non essere d’accordo con l’autore, pensare che una frase noi l’avremmo scritta in un altro modo, ma quello è il suo libro. Accade la stessa cosa con il restauro. Ci accostiamo a un edificio, e ci lasciamo guidare dagli elementi architettonici, dai muri, dai soffitti, dalle volte, dalle discrepanze, dalle anomalie. Entriamo in una stanza e stiamo lì, senza fretta, ascoltiamo che cosa ha da dirci: dobbiamo abbandonare la nostra soggettività e lasciarci influenzare dall’aria di quella stanza, assecondare il suo silenzio. All’inizio, ci salta agli occhi il difetto, ci respinge il degrado, la bruttura, l’oscenità di una crepa, di una scrostatura. Poi, cominciamo a percorrerla e a toccarla, superando il rigetto, la prima impressione. Sotto l’intonaco i muri sono vivi. Incomincia così la storia di un restauro. Il nostro intervento sarà secondo la piegatura. Certo, tendiamo nella nostra idea di perfezione a escludere tutto ciò che disturba, che è inarmonico. Ma siamo costretti, via via, a divenire più tolleranti. Anzitutto, non sempre si possono fare le cose che si vogliono, perché materialmente o tecnicamente impossibili, e quindi bisogna trovare combinazioni nuove. A volte, è l’artigiano a suggerirle: bisogna essere pronti all’imprevedibile e a modificare. Quella che era stata prevista in un certo modo diventa un’altra cosa e quest’altra cosa deve essere portata alla qualità, non bisogna impuntarsi. Ci sono errori che possiamo fare noi ed errori di chi esegue il lavoro. Per esempio, un pavimento dove non si sono misurate le quote con attenzione può richiedere uno scalino imprevisto. Bisogna tollerarlo e accoglierlo, renderlo prezioso, fino a farlo diventare un elemento architettonico indispensabile in quel testo. Ciascun giorno sfugge qualcosa che tu non vorresti, qualcosa che andava fatto in un certo modo e che viene eseguito scorrettamente. Prima, questo mi dava un dispiacere fortissimo, quasi intollerabile. Poi, ho imparato, parlando con i manovali, i muratori, a trovare un modo, non per rimediare, ma per fare rientrare anche quella variazione nel progetto. La cosa importante è il ritmo: incominciare un lavoro e portarlo a termine, fino all’ultimo piccolo dettaglio. È la cosa più difficile, il passaggio dal cantiere alla definizione del dettaglio. Chi si affeziona al cantiere lascia sempre qualcosa di non compiuto, un segno di sé. Occorre, a un certo punto, decidere di uscire dalla stanza dove abbiamo lavorato per mesi, e chiuderci la porta alle spalle. Lavorare tutto il giorno con uomini non è facilissimo. Per giunta, io non sono né architetto né ingegnere. E però devo farmi ascoltare da uomini che, di solito, rispondono solo a altri uomini. A volte è stato indispensabile l’intervento di Armando Verdiglione: ci voleva un’autorità veramente forte in certi frangenti, in passaggi difficili.

Questi passaggi difficili dipendevano da problemi di organizzazione e di comunicazione?

I passaggi difficili sono quando ciascuno fa il suo lavoro, ma non s’interessa di quello dell’altro. “Io faccio i lavori d’idraulica”. “Io faccio la parte elettrica”. “Io faccio il cablaggio e passo solo con i miei cavi”. Mondi paralleli che non s’incontrano. Ma quando occorre concludere un lavoro che comporta l’integrazione di tutte queste figure, è indispensabile far capire a ciascuno che per la riuscita non basta che egli faccia la sua parte, deve fare in modo che si giunga alla conclusione, dove c’è il suo lavoro accanto a quello degli altri. Ci vuole fede, entusiasmo e determinazione, e tantissimo lavoro, perché le persone lavorano nella misura in cui ti vedono lavorare. Bisogna che si dispongano dispositivi differenti e vari, e una forte identificazione: una missione. Chi posa le liste di legno sul pavimento sa che quel pavimento resterà dopo di lui, e anche dopo i suoi figli, i nipoti e i pronipoti, sicché ha da trarre fierezza da questo suo lavoro. E se lui posa una lista storta, resterà storta per i prossimi cento anni. Questo è anche l’aspetto interessante, dire: “Ora lei ci mette mezz’ora in più, ma consideri che questo resterà qui per i prossimi cento anni”. Così, con un po’ di gioco si riesce a intervenire.

Poi c’è tutto un lavoro accanto, che avviene nella ricerca dell’arredo, dei mobili. Questo nel giro di tre anni, nelle varie collezioni, in case private.

Tu raccogli mobili ma non sai dove andranno, perché non è come in quei lavori a contratto, dove tutte le camere sono uguali: duecento letti, cento scrivanie, e via. Qui abbiamo raccolto, nel corso degli anni, bellissimi mobili e poi ciascun mobile sceglie la sua stanza: tu li metti lì, lungo quell’ampio corridoio, quasi una galleria, tutti in fila, e incominci a provare: vediamo se questa scrivania si trova bene nella camera del Principe, sotto la finestra, se è proprio questo il suo posto o se invece preferisce la camera di Ernesto Breda. Una grande libertà. Accade così nelle case, dove man mano mobili e arredi, oggetti e suppellettili, libri e dipinti si aggiungono e si integrano negli anni, secondo combinazioni e stratificazioni, e sono questi oggetti e questi mobili a parlarci dei nostri cari.

Qual è il profitto intellettuale che ha tratto da quest’esperienza?

Questo lavoro quotidiano ha comportato per me un’elaborazione importante, e costituisce la base per il prossimo libro. Le case sono nella mia storia, mi hanno accompagnato nel corso degli anni. Fare della casa un albergo è il colmo dell’elaborazione, comporta che la casa non abbia più nulla di domestico e, tuttavia, indica che ciascun ospite viene accolto come in una casa. A volte, io penso anche come l’ospite — l’ospite che tu non conosci, neanche il tuo amico, ma proprio l’ospite che non conosci — considera queste stanze, penso a quando poggia lo sguardo sulla tenda, su una cornice, un dettaglio, che gli fa dire: “Vedi, chi ha pensato a questo dettaglio ha pensato a me”.

Per lavorare e indurre altri a farlo sono costretta a raccontare molto. Anche alle persone che sono accanto a me da tanti anni ho dovuto raccontare quello che stavo facendo, perché chi era arrivato nella Villa da tanti anni continuava a “vederla” sempre allo stesso modo, quasi non si accorgesse della trasformazione. È una specie di processo di valorizzazione che avviene man mano, ed è quel processo di valorizzazione che deve portare alla finanza. Non si può lavorare avendo come scopo il guadagno, certamente, però sono convinta che alla conclusione questo guadagno ci sia. Penso che questo lavoro sarà portato come esempio di restauro in Italia: una restituzione non in pristino ma in qualità.

Con quali criteri ha combinato le esigenze dell’architettura di questa Villa del 500 con quelle dell’arredamento?

L’arredamento non deve coprire l’architettura, sono più importanti i muri. L’arredamento deve integrare, non coprire. Ho visto bellissimi palazzi dove l’arredamento prendeva il sopravvento. C’è una bellezza dei muri, e anche della materia. In certe case l’arredamento è fatto con la fobia dei muri, coperti con strati di stoffe. Poi, questa Villa ha qualcosa di molto sobrio, nasce così, non bisogna forzare questa sua sobrietà. Questa Villa è grandissima. Quando ho incominciato, ciascun giorno dovevo conquistare un metro, due metri: a prenderla nella sua immensità, c’era da arrendersi subito. E poi, la questione è sempre quella della linguistica, perché qui si tratta proprio di una linguistica del restauro. Come quando scrivi un libro e la notte ti viene in mente una frase, un’immagine, significanti, giri sintattici, ti trovi in un processo di scrittura, anche quando non sei a tavolino. La stessa cosa avviene per il restauro: a un tratto, ti viene in mente un dettaglio e una soluzione a cui non avevi pensato, un colore. Bisogna prendere appunti, annotare, scrivere, disegnare.