PER UN PARTICOLARE APPROCCIO AL RESTAURO

Qualifiche dell'autore: 
assessore all'Urbanistica del Comune di Modena

Il direttore generale del Ministero dei Beni Culturali, Roberto Cecchi, con il suo libro I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà (Spirali) – che abbiamo presentato il 13 luglio 2007 in questa stessa splendida sala della Galleria Estense –, ci ha insegnato che l’intervento di tutela non deve essere episodico, ma una regola generale applicata al patrimonio che la merita. Ci ricordava che, per raggiungere tale obiettivo, sono necessarie una serie di azioni, tra le quali un censimento preciso – anche perché nel nostro paese sono oltre cinquecentomila gli immobili che meritano questo tipo di tutela e di attenzione – e una maggiore interazione tra le strutture degli enti di tutela, in modo particolare delle soprintendenze e quelle degli enti locali. Altrimenti, il lavoro di tutela rischia di essere un lavoro di trincea, che riguarda una percentuale molto limitata del nostro immenso patrimonio e tralascia la parte più cospicua. La nostra città ha avuto sempre un’attenzione particolare ai temi della tutela. Nel 1974, per esempio, abbiamo vincolato l’intero centro storico, con circa 1500 immobili interessati; con il piano regolatore del 1989 abbiamo portato a termine un lavoro importantissimo, che in cinque anni ha analizzato oltre 15000 edifici fuori dal centro storico e ha portato a tutelarne circa 4500.

Partendo da questa realtà, di recente abbiamo avanzato una proposta, anzi, una richiesta di più stretta collaborazione alle soprintendenze: considerando il fatto che, rispetto al tema della tutela, l’intervento degli istituti preposti, purtroppo, è ancora dimensionalmente insufficiente, causa la carenza di organici a disposizione, perché allora non utilizzare anche il rilevante patrimonio di esperienza e di professionalità acquisite dai tecnici degli enti locali, che possono dare un grande supporto di collaborazione alle soprintendenze e, nello stesso tempo, ricevere preziosi insegnamenti per proseguire in modo sempre più efficace il loro lavoro?

Il bellissimo libro di Lorenzo Jurina, Vivere il monumento. Conservazione e novità, si situa come ideale e coerente continuazione della sollecitazione di Roberto Cecchi. È una fantastica lezione d’ingegneria applicata alla tutela. Jurina è un ricercatore capace d’introdurre nella materia della tutela elementi d’innovazione profonda, risultato di una ricerca storica e tecnologica che riesce a tradursi in strumenti efficaci e innovativi d’intervento sui temi della tutela, con felici sperimentazioni ben raccontate nel suo libro. Trovo anche che egli offra un grande insegnamento culturale, che deriva dalla sua passione e dalla sua capacità di approfondimento storico e dall’esperienza maturata, che gli fa dire – e sono pienamente d’accordo – che ciascun intervento è un unicum.

Per tale motivo occorre, come afferma nel suo libro, innanzitutto “vivere” il monumento, analizzarlo profondamente, documentarsi sulla sua storia, sugli interventi applicati in varie epoche successive, verificare meticolosamente la sua situazione statica, interagendo con le sue destinazioni d’uso, quelle attuali e quelle proposte dalla proprietà e dalla committenza, rispetto alle quali l’intervento può assumere caratteristiche diverse.

Solo dopo tutto ciò, si potrà effettuare la diagnosi e, quindi, proporre l’intervento più adeguato che, come egli ci ricorda, parte innanzitutto dalla speranza che non occorra applicare alcun intervento: è sempre meglio non intervenire, se dalla diagnosi finale emerge che un determinato monumento, fatte tutte le valutazioni, può ancora adempiere al suo uso così com’è.

Logicamente, non è sempre così, e allora occorre individuare le soluzioni più adeguate a ciascun caso e intervenire.

Dal libro si possono trarre diversi insegnamenti, ma ne ho ravvisati quattro, che potrebbero essere definiti i quattro codici di un particolare approccio al restauro, che rappresenta un delicato e convincente equilibrio tra conservazione e novità: il primo ci fa considerare il restauro conservativo come un’opera in cui bisogna intervenire con un grande rispetto per l’edificio e per la sua storia, non solo come simbolo o memoria, ma includendo anche la materia da cui è costituito come elemento primario d’indagine; il secondo ci dice che il nostro intervento deve essere minimo rispetto alla storia dell’immobile, riguardo alla quale è legittimo aggiungere piuttosto che sostituire o eliminare, rifiutando, dove è possibile, la metodologia della demolizione e della riparazione in stile; il terzo suggerisce un intervento che sia caratterizzato dalla leggerezza, un accostamento armonico con l’elemento esistente, che si affianca a esso, ma che comunque può utilizzare materiali e tecnologie di questo secolo, le migliori di cui possiamo disporre. È chiaro che va privilegiato l’uso di materiali leggeri, in cui Lorenzo Jurina è maestro, di strutture aggiunte che possono coesistere con quelle già presenti e che siano anche visibili, ma mai esagerate o esasperate, per non compromettere la lettura del monumento. Credo inoltre che un elemento importante del lavoro di Jurina – e questo potrebbe essere il quarto insegnamento – sia il suo modo d’interpretare il ruolo d’ingegnere e di architetto (e di medico dei monumenti), che l’ha portato ad avere caratteristiche così complesse e così ben armonizzate, che difficilmente si trovano in una stessa persona e che, anzi, molto spesso, fanno parte della pluralità di esperienze e di professionalità di un’intera equipe. Nel suo caso le troviamo in un’esperienza unica. Voglio infine notare che raramente nei dibattiti sul tema del recupero, così controverso, si trova un’unanimità di espressione nel riconoscimento di un lavoro, come questa sera. Evidentemente, questo accade perché tale lavoro è frutto di un grande e indiscutibile talento.