GIUSTIZIA O POLITICA?

Qualifiche dell'autore: 
direttore dell'Istituto di Ricerca sui sistemi giudiziari del CNR, membro laico del CSM

Uno dei fenomeni che caratterizza le moderne società democratiche è il crescente rilievo che in esse è venuto assumendo il potere giudiziario negli ultimi quarant’anni. Tra le principali cause del fenomeno vi è certamente il progressivo espandersi del c.d. welfare state e della legislazione “sociale” ad esso relativa. A differenza di quanto avveniva in passato, nel settore civile ed amministrativo le decisioni dei giudici riguardano ormai tutti i settori di interesse del cittadino: da quello del lavoro e della previdenza sociale, a quello della scuola, a quello delle pensioni, a quello della famiglia, a quello della salute (nel caso Di Bella un giudice ha persino individuato quali dovessero essere nel merito le cure da somministrare ad un cittadino), a quello dello sport, e così via. Sempre più penetrante e invasivo è poi il ruolo della giurisdizione penale. Ciò è principalmente dovuto a due fenomeni tra loro in parte connessi. Da un canto, l’espandersi del welfare state ha fatto dello Stato e degli enti pubblici i principali erogatori di spesa con il conseguente crearsi di fenomeni ed occasioni di corruzione politica ed amministrativa senza precedenti. D’altro canto, negli ultimi quarant’anni è mutata la natura e dimensione stessa dei fenomeni criminali. Si è progressivamente passati da una criminalità di tipo eminentemente locale ad una criminalità organizzata che ha dimensioni nazionali ed internazionali e che può contare su risorse economiche di notevolissime dimensioni.

Non può quindi sorprendere che la magistratura abbia acquisito un ruolo di grande rilievo politico non solo in Italia ma anche, seppure in misura variabile, in tutti gli altri paesi di moderna e consolidata democrazia.

Il rilievo politico della magistratura ha tuttavia assunto da noi un’intensità sconosciuta in altri paesi democratici. Nei suoi effetti si tratta di un fenomeno che sin dagli anni ’70 è ben noto ai politici e amministratori pubblici, anche a quelli che operano anche al livello locale. È poi divenuto ben visibile a tutti negli anni di tangentopoli quando in Italia, e solo in Italia tra i paesi democratici, un’intera classe politica è stata spazzata via per iniziativa della magistratura, e con essa i cinque cinque partiti che avevano sino ad allora governato il nostro Paese. Certo la corruzione esisteva, ma è anche vero che la maggior parte dei politici che allora furono indagati, o addirittura incarcerati, non è poi risultata colpevole. Un recente libro dell’On. Giovanardi, ad esempio, mostra che degli ottantotto parlamentari democristiani del cosiddetto “Parlamento degli inquisiti”, quello sciolto nel ’94, meno di dieci sono stati poi condannati. Più in generale in quegli anni è divenuto evidente un fenomeno che può accadere solo in Italia: quello cioè di un numero elevatissimo di iniziative giudiziarie, spesso costosissime, che non approdano a nulla. Iniziative giudiziarie di cui nessuno può essere chiamato a rispondere, ma che sono devastanti per i cittadini coinvolti, politici e non politici. Devastanti sotto il profilo sociale, politico, economico, della dignità ed immagine personale e familiare, spesso della stessa salute.

Le ragioni per cui l’iniziativa penale ha assunto da noi un rilievo politico superiore a quello che ha negli altri paesi democratici è da ricercarsi principalmente nell’anomalo assetto che caratterizza il ruolo del nostro pubblico ministero. Egli può iniziare e dirigere, da vero poliziotto, indagini su ciascuno di noi anche sulla base di deboli indizi e senza preoccuparsi dei costi. Nella sostanza abbiamo in Italia un pubblico ministero che nella fase delle indagini diviene un poliziotto del tutto indipendente, una figura cioè difficilmente compatibile con la protezione dei diritti civili in uno stato democratico. Non solo. Se dopo anni di indagine e di attività processuali il cittadino risulta del tutto innocente, il p.m. che le ha promosse non può comunque essere chiamato a rispondere del suo operato nè dei costi ad esso relativi. Il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale lo rende del tutto irresponsabile. Il nostro costituente, infatti, ha stabilito che il pubblico ministero debba obbligatoriamente attivarsi in tutti i casi in cui esista una notizia di reato. Ha così deciso sul falso presupposto che sia di fatto possibile perseguire con eguale efficacia tutti i reati. Una decisione che rivela una notevole dose di ingenuità nei nostri padri fondatori, perché di fatto è materialmente impossibile perseguire tutti i reati. Negli altri paesi democratici dove, più realisticamente, si è tenuto conto di tale impossibilità, l’azione penale è regolata e responsabilizzata proprio per tutelare il cittadino da iniziative penali non giustificate. Da noi, invece, anche quando risulta, spesso molti anni dopo, che le iniziative del p.m. non erano fondate, egli può sempre pretendere che esse debbano considerarsi comunque necessitate perché, stante l’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione, egli era obbligato ad agire a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Così, a dispetto dei danni causati al cittadino e dei costi per lo Stato, egli comunque non può essere ritenuto responsabile delle sue decisioni, per discrezionali che esse siano di fatto state.

A rendere ancora più precaria la protezione dei diritti del cittadino nell’ambito del nostro processo penale vi è poi anche il fatto che i controlli processuali sulle iniziative del pubblico ministero nella fase delle indagini e dell’iniziativa penale sono di fatto molto deboli. Sia i pubblici ministeri che i giudici appartengono allo stesso corpo (e possono anche passare da una funzione all’altra nel corso della loro lunga carriera). A controllare le richieste del p.m. è quindi chiamato un suo collega che al momento esercita le funzioni di giudice. Un collega, cioè, che è stato reclutato come lui che ha gli stessi interessi corporativi, che appartiene allo stesso sindacato, che elegge insieme a lui lo stesso Consiglio Superiore della magistratura, che opera quotidianamente fianco a fianco a lui nello stesso palazzo di giustizia. Un famoso giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Jackson, diceva che il maggior pericolo insito nell’attività del pubblico ministero è che egli possa perseguire le persone piuttosto che i reati. Che di conseguenza egli possa prendere di mira, per ragioni politiche o personali, un cittadino ed utilizzare le forze di polizia per svolgere su di lui indagini a tutto campo per scoprire eventuali reati da lui commessi. Indubbiamente tra i paesi a consolidata democrazia il nostro sistema giudiziario è quello che, più di qualsiasi altro, massimizza la possibilità che questi fenomeni avvengano su ampia scala. Ovviamente massimizza anche i pericoli che da quel fenomeno derivano per la protezione della libertà e dignità del cittadino nell’ambito del processo penale.

Un altro risvolto di grande rilievo politico che discende dagli eccezionali ed irresponsabili poteri di cui gode il nostro p.m. riguarda la funzione deterrente che quei poteri esercitano sulla classe politica. Nell’affrontare i temi della riforma dell’ordinamento giudiziario e delle garanzie che esso dovrebbe fornire al cittadino anche nel nostro paese, nessun legislatore può permettersi il lusso di non considerare i pericoli cui espone se stesso ed il proprio partito. Anche per questo le prospettive di riformare il nostro assetto giudiziario rendendolo più simile a quello degli altri paesi democratici e più garantista nei confronti dei cittadini non sono affatto incoraggianti. È attualmente al vaglio del Parlamento un limitato progetto di riforma.

Purtroppo, non prevede forme di regolamentazione e di responsabilizzazione delle attività del p.m., ma prevede la separazione della sua carriera da quella del giudice. Non sono ottimista che la riforma vada in porto. Spero di sbagliarmi.

(Trascrizione dell’intervento al dibattito in occasione della pubblicazione della rivista “Il giusto processo”, organizzato dall’associazione culturale “Il Circolo” di Bologna).