IL SECONDO RINASCIMENTO NEL PIANETA. MODENA CITTÀ IN VIAGGIO: LA SCIENZA, L'ECONOMIA, LA FINANZA, LA CULTURA, L'ARTE

Qualifiche dell'autore: 
cifrante, brainworker, imprenditore, editore

Ringrazio l’Unione Industriali di Modena, in particolare la Nuova Didactica e coloro che dirigono questa iniziativa e che promuovono un dibattito anche rispetto all’economia, alla finanza e all’intellettualità dell’impresa. Ringrazio la dottoressa Anna Spadafora, che ha voluto organizzare questo incontro e ha tanto insistito, e anche la dottoressa Stefania Persico, che mi ha convinto a intervenire. Sono contento di trovarmi qui con voi e ringrazio ciascuno di voi di trovarsi qui con me.

Ormai sono più di trent’anni, dal 5 febbraio del 1973, che questo processo intellettuale, internazionale e intersettoriale si è avviato. Lo abbiamo chiamato il secondo rinascimento per una questione intellettuale, una questione logica. Se qualcosa è sorto in Italia dopo l’impero romano, è qualcosa che attiene all’atto di Cristo e al rinascimento. L’atto di Cristo è l’atto originario, e in questo senso si distingue dall’atto di Edipo. L’atto di Edipo è ancora avvolto in una imprecisione, propria del mito e quasi della mitologia. Ma ciò che ci consente di leggere Edipo è Cristo, è l’atto di parola. La modernità incomincia con Cristo, ma trova modo, poi, attraverso la patristica, attraverso quello che è stato chiamato a torto il Medioevo – che invece è ricchissimo di elementi – e, poi, attraverso il secondo millennio, l’era in cui si precisa, ancora di più, questo processo intellettuale come viaggio. Viaggio, non soltanto di Marco Polo o di Dante, ma, anche, di San Francesco e, certamente, poi, di Cristoforo Colombo. Viaggio intellettuale. L’Italia si è messa in viaggio. Ciascuna città è in viaggio e è in viaggio dal rinascimento, in modo particolare. Questo viaggio ha ormai invaso il pianeta. L’arte e la cultura, nel pianeta, risentono dovunque del rinascimento. E la vita stessa trova una definizione intellettuale, culturale e artistica, prima ancora che politica e prima ancora che economico-finanziaria. Anzi, la vita non trova una definizione politica o una definizione economica o una definizione finanziaria, se non in quanto ha una definizione intellettuale, ha una sua intellettualità. Togliamo dall’impresa, dall’istituzione, dalla scuola l’intellettualità: togliamo il processo di valorizzazione, togliamo anche l’ipotesi, per ciascuno, della direzione.

Noi ci siamo trovati a inaugurare dibattiti internazionali e intersettoriali, interrogando ciascuna volta capitani, governanti, imprenditori, banchieri, artisti, pittori, scrittori, filosofi, scienziati, intorno all’ipotesi della direzione. Se c’è qualcosa che Freud ha potuto avviare, attorno a cui ha aperto una breccia, è che gli umani ignorano la strada. Pur viaggiando, ignorano quale sia la strada. Allora si tratta dell’ipotesi. L’ipotesi della direzione è essenziale, perché consente di rischiare, di prendere una decisione. E, ciascuna volta, la decisione è una sola, il rischio da compiere è quello, la strada è quella. Ciascuna volta, non ci sono due strade che si aprono, una la vita, l’altra la morte, una il positivo, l’altra il negativo. Oppure, non c’è nessuna ombra che debba stare dinanzi.

Vita e morte è qualcosa d’inconciliabile, come positivo e negativo, bene e male. È un inconciliabile originario. In altre parole, non c’è modo di compiere una conciliazione. Questo inconciliabile è il due, è l’apertura originaria, da cui le cose procedono, da cui procede, quindi, anche il viaggio, da cui procede il rinascimento.

L’Italia ha dato il rinascimento al pianeta e, con l’Italia, l’Europa, che è tratta, dall’Italia, nel rinascimento. E questo processo della parola, questo processo intellettuale, questo processo proprio al rinascimento e all’industria della parola, è inarrestabile. E ha travolto il discorso greco, il discorso di Atene, il discorso della morte, che poneva dinanzi a noi l’alternativa, la vita o la morte, ma, in fin dei conti, confermando gli umani e consacrandoli nella paura.

Dissipare la paura è il gesto essenziale, proprio di un imprenditore, di un artista, di un poeta, di un banchiere, di un governante. Qualsiasi cosa si faccia per paura, seguendo la paura, lo si fa tenendo dinanzi il male, il negativo, la morte, facendo in modo di compiere l’economia, il minimo male, il minimo negativo. Ma questo è un modo d’intendere la vita come una continua mortificazione, una spazializzazione, come se la direzione della vita fosse quella della linea o del circolo, anziché quella della spirale. Non c’è più cerchio, diceva Leonardo da Vinci. E, da questo, Machiavelli ha tratto l’altra politica, la politica dell’ascolto, la politica dell’Altro, la politica dell’ospite, la politica del tempo, anziché la politica fondata sulla logica binaria, quella che insegue l’alternativa costante tra il positivo e il negativo.

Non è affatto vero – lo dicevamo trent’anni or sono – che l’Europa sia tramontata o che sia finita o che sia morta. L’Europa e, in prima istanza, l’Italia è più che mai il faro della civiltà planetaria. Non può competere — come si continua a dire (la competizione sottende un’ideologia arcaica) — nella manodopera, nella fabbrica, in una certa produzione, ma l’Europa, e l’Italia in modo particolare, è già software del software.

La civiltà è planetaria o non è, ma non è civiltà tanatologica, non è civiltà della morte, non è civiltà dell’alternativa, non è civiltà dell’ombra. In tutto questo, il viaggio, il turismo. Noi abbiamo inseguito il luogo della fabbrica. Ma industria è un termine inventato a Roma. Machiavelli diceva: “La industria vale più che la natura”. E, quando diceva “la industria”, non era nata l’industria nel Regno Unito, non era nata neppure in altre parti del continente europeo, ma era già industria della parola. Rimane l’industria intellettuale. E Leonardo parlava dell’“artifiziosa natura”, la natura stessa è artificio, è poesia. E, quindi, la poesia, l’arte e l’invenzione, il fare, l’arte e la cultura del malinteso — arte del fare è la stessa intelligenza — sono la base stessa dell’impresa.

Ma se noi togliamo dall’impresa l’intellettualità, che cosa rimane? Un’impresa infernale, un’impresa affidata a tutte le ideologie. Dicono che debba avere i suoi cicli, fra l’evoluzione e il progresso. L’impresa così viene presa nel cerchio e nella circolazione. Ognuno deve circolare, ognuno deve divorarsi per fare cerchio e farsi cerchio. Un po’ come l’Uroboro, un po’ animale fantastico. Questa la renovatio.

Con l’atto di Cristo, non c’è più la renovatio, non c’è più il ritorno. Platone ha escogitato, contro Pitagora, questa mitologia: che noi siamo qui, caduti, catapultati, che veniamo da un’origine e dobbiamo farvi ritorno. Tutto è preso nel cerchio. E il prima e il dopo sono a seconda del punto del cerchio in cui ci troviamo. Ciò che una volta era prima, poi, diventa dopo. La guerra di Troia, in un certo senso, ci precede, ma in un altro senso noi siamo prima della guerra di Troia, perché ce ne sarà un’altra. Questo è il cerchio. Siamo tanto abituati a pensare le cose in questo modo da non renderci conto che queste idee, che noi crediamo naturali, invece sono ideologie.

L’imprenditore, quando dirige la sua azienda, quando prende decisioni, quando amministra, quando compra e vende ha idee. Anche prima d’incominciare l’azienda, ha idee. Queste idee sono idee originarie o idee, che egli crede naturali e, invece, sono superstizioni, idee ricevute, non originarie? L’idea che ci sia un’origine trae con sé l’idea di salvezza, di salute mentale, non già di salute intellettuale.

Quando siamo andati a Omsk, in Siberia, o quando abbiamo ospitato una mostra di opere di artisti di Bagdad, nella Villa San Carlo Borromeo, o in varie regioni del pianeta, abbiamo troviamo sempre che l’arte risente del rinascimento. La stessa Russia s’ispirava al modello bizantino, fino all’inizio del diciottesimo secolo, quando, con San Pietroburgo, costruita anche e, sopra tutto, da italiani, incomincia, non solo per l’architettura, ma anche per la scultura e la pittura, a ispirarsi al rinascimento. L’arte russa, da allora, è rinascimentale. E sono rinascimentali anche la letteratura, la scrittura, la scienza. Non si tratta soltanto di fare l’impresa, ma di pensare l’impresa. Non si tratta soltanto di fare pittura, ma di pensare la pittura. Qual è la pittura come scrittura, la pittura che riesce a compiere la scrittura dell’esperienza e l’esperienza stessa, come originaria? Lo stesso Iannis Xenakis, grande architetto e compositore, ha scritto un libro bellissimo, Musica e architettura, ma avrebbe potuto scrivere Architettura e musica, oppure altri avrebbero potuto scrivere Oralità e scrittura, Pittura e scrittura. Lo fa Leonardo da Vinci, lo fa tutto l’indirizzo moderno. La modernità è questa: l’altro modo, il modo del due, dell’apertura originaria, e il modo del tre. Il modo della logica diadica. Il modo della logica triadica. E il modo del tempo.

Noi siamo abituati all’idea del tempo come durata e, cioè, all’idea del tempo come linea. Ancora una volta, come cerchio. Ma il tempo è il taglio, la scissura. Nella sua eternità. E non finisce. Il tempo in atto. Il tempo facendo. Il fare è la struttura dell’Altro. Ma il discorso comune ordina agl’imprenditori, ai capitani, ai banchieri il principio di non contraddizione. La vita è piena di contraddizioni. Le risorse, le cose straordinarie della vita, i miracoli muovono dalla contraddizione. Una cosa è la contraddittorietà della vita. Un’altra è il conflitto.

Il conflitto esige un’alternativa, tra il bene e il male, posta dinanzi a noi. Questo è il conflitto. Ma non c’è conflitto, se il bene e il male sono inconciliabili, sono l’ironia, sono la questione aperta, l’interrogazione aperta, il modo dell’apertura, da cui procedono le cose.

Il secondo rinascimento è rinascimento e industria della parola originaria. Industria della parola. Noi ci troviamo in un viaggio narrativo. Il conto, il calcolo, il racconto, l’imparare, tutto questo è della narrazione, nella narrazione, con cui il viaggio man mano si scrive. Che ci sia la scrittura, come scrittura dell’esperienza originaria, è qualcosa che viene dal rinascimento. Nella nostra lettura. Leonardo da Vinci, per cinque secoli, non è stato letto. È stato tradotto qualcosa, malissimo e deformandolo in pieno e, quindi, è stato costruito un personaggio a immagine e somiglianza di ogni ideologia nazionale, dall’America all’Italia, alla Francia, alla Russia, alla Germania, all’Inghilterra. Solo negli ultimi quarant’anni, le novemila pagine, sulle centomila che egli aveva scritto, sono state trascritte in modo critico. Quindi, noi abbiamo potuto compiere una lettura precisa, integrale. E questo è essenziale. Lo stesso Machiavelli era respinto in Inghilterra, in Francia e in vari paesi, senza essere né tradotto né letto. Quello che era stato tradotto e letto era L’antimachiavelli, un libro di Innocent Gentillet, che travisava completamente Machiavelli in nome dell’antimachiavellismo. E così siamo abituati a sentire: “Machiavelli? Ah, il fine giustifica i mezzi”. Ma questo postulato ideologico non è stato mai enunciato da Machiavelli. Anzi, è contraddetto a ogni pie’ sospinto nel suo testo. È stato creato nella seconda metà del diciannovesimo secolo e attribuito a Machiavelli. Così l’autoritratto di Leonardo, a Torino: “Questo è l’autoritratto di Leonardo”. È stato un conte piemontese, che è andato da re Carlo Alberto e gli ha portato un po’ di cose raccolte per l’Europa, come facevano gli antiquari. Porta a Carlo Alberto il disegno di un uomo con la barba, dicendo che si tratta dell’autoritratto di Leonardo, spacciando per autentico un disegno del diciottesimo secolo. Leonardo era contro ogni autoritratto: basta leggere i suoi scritti, dove egli diffida i pittori e gli artisti dal compiere l’autoritratto, da coloro che si parlano addosso, che si dipingono addosso costantemente. L’imprenditore non si parla addosso e non si dipinge addosso.

Vent’anni fa, trent’anni fa, sui giornali, in vari paesi, taluni dicevano: “Che cos’è questo accostamento tra lo scrittore, il poeta, lo scienziato e l’imprenditore?”. Ciascuno di loro compie un rischio assoluto, si trova a operare, a parlare e a scrivere, non nella propria lingua, quella che Leonardo chiama la lingua dei litiganti, la lingua del rumore perpetuo, nell’altra lingua e nella lingua altra, nella lingua della scrittura. Quindi, nella lingua di quella che si chiama comunicazione. Ma forse non viene inteso che cosa sia la comunicazione.

Quella che viene chiamata comunicazione è luogocomunicazione, è luogo comune. Senza l’immunità, ma con il purismo. Chi toglie l’immunità dall’impresa è purista. E l’impresa non si può gestire, non si può dirigere con il purismo, ma bisogna che abbia una sua immunità, che abbia le sue virtù, che sono le virtù dell’Altro o che sono le virtù del tempo. Non può compiersi nessuna impresa, pensando sempre che debba finire. “Se mi va male”, “Faccio questo, perché, se mi va male…”. Tutta una serie di precauzioni, di preoccupazioni, di affanni l’imprenditore deve prendere, perché “Se mi va male…”. Allora, incomincia a distinguere tra sé e l’impresa. “Se l’impresa va male, io mi salvo”. Quindi, siamo già all’idea di salvezza e non c’è processo d’identificazione fra sé e l’impresa. L’impresa è l’impresa intellettuale. L’impresa di vita.

Come possiamo dire: “Se l’impresa di vita mi va male…”? La fede nella riuscita è una fede assoluta, una fede incrollabile, una fede che non ammette vacillamenti. L’imprenditore non può fare vacillare questa fede, la sua fede nella riuscita dell’impresa è assoluta. E gl’interlocutori finanziari, commerciali, intellettuali si accorgono se l’imprenditore si trova con questa fede nella riuscita dell’impresa. Se egli già incomincia a mettere nel conto che andrà male, che qualcosa di negativo sta insinuandosi… E, poi, tutta una serie di superstizioni: il ciclo, la ricorrenza, il ritorno, il cerchio.

Poi ci sono gli esperti, i consulenti, che fanno le loro teorie, che sono formalizzazioni, talora non intellettuali, ma sostanziali, cioè senza il dogma della transustanziazione.

Che cos’è il dogma della transustanziazione, importante per un imprenditore? Non c’è più sostanza: non c’è da cercare la sostanza, che cosa stia dietro, che cosa stia sotto. C’è da capire e da intendere, ancora una volta, qual è la direzione, qual è la strategia, quindi, qual è il programma, qual è, anzi tutto, il progetto. Il progetto non si definisce una volta per tutte, ma si enuncia in maniera globale e il programma si affina di volta in volta. Necessità del progetto. E necessità del programma. Progetto di vita. Programma di vita. Tutto questo può essere anche mosso dal disagio. L’imprenditore, come l’artista, come il poeta, come il banchiere, può trovarsi nel disagio. Il disagio: però, non così come viene creduto dagli psichiatri, disagio mentale, ma disagio originario. Non ha niente di negativo il disagio. E dove lo trae il disagio? Lo trae al progetto.

Consideriamo un’altra cosa. Nell’esperienza dell’imprenditore, c’è un momento, non necessariamente nell’arco dell’anno, ma anche nell’arco della stessa giornata, in cui qualcosa sembra una vittoria. Oppure, un altro momento, in cui qualcosa sembra una sconfitta, perché c’è stata un’incomprensione, un ostacolo. Bisogna sempre capire se l’ostacolo non venga posto direttamente dall’imprenditore, se non è lui a indurre, in certo modo, la rappresentazione dell’ostacolo nel suo interlocutore. Quindi, se non è lui a opporsi al suo stesso progetto. L’ostacolo, in effetti, è assoluto. L’ostacolo non impedisce nulla, l’ostacolo è la condizione del viaggio e della riuscita. La difficoltà non fa paura a nessuno, purché sia una difficoltà assoluta. Se noi, invece, stiamo a rappresentarci l’ostacolo e la difficoltà, rimaniamo ingarbugliati, invischiati. E non ritroviamo quella, che bisogna che ci sia nella vita, nella vita dell’impresa e nell’impresa della vita, nell’impresa di vita: una leggerezza intellettuale.

Questa nuova figura del brainworker, che è stata avviata prima a Boston, poi a Chicago, poi a Ginevra, all’Istituto Battelle, poi a Bruxelles, promossa dall’Unione Europea, noi l’abbiamo rilevata. E abbiamo trovato uno statuto del brainworker, che è lo statuto intellettuale. Ciò che importa, se nulla è improntato più alla paura, non è lo statuto sociale e professionale, non è la categoria sociale e professionale, ma è lo statuto intellettuale. Questo è essenziale per l’azienda: quali sono i dispositivi intellettuali, i dispositivi di valore, di direzione, i dispositivi economici, i dispositivi finanziari, i dispositivi commerciali, i dispositivi amministrativi. Dispositivi intellettuali. Non ci sono soggetti, nell’impresa.

Leggendo i vari libri, che vengono prodotti intorno all’impresa, sembra di trovarsi nei gironi infernali. Solo che l’inferno di Dante fa parte del cielo e non sembra affatto infernale. Sembra che siano postapocalittici. Che ci siano lì tanti soggetti, che abbiano bisogno di superstizioni, di consultare il mago, abbiano bisogno di droghe, di psicofarmaci. E si rivolgono ai tecnici, continuamente, come se potessero dare loro lo psicofarmaco. Questa è una questione delicata. L’imprenditore ha bisogno dei tecnici. Capisce e intende, non sa questa o quell’altra cosa, consulta i tecnici, ma capisce che cosa importa per la sua azienda. Non può delegare il tecnico, rispetto alle decisioni essenziali e al rischio assoluto che egli corre, perché non è detto che il tecnico, il consulente, assuma lo stesso rischio. Non è detto. Dovrebbe sentirsi, anche il consulente, nello stesso rischio, ma tante volte dà solo un parere, un consiglio su altre basi, sulla base della propria professionalità e sulla base delle esigenze del proprio budget. D’altronde, i consulenti che abbiano una certa lucidità, che procedano in modo razionale, chiaro e semplice, sono pochissimi. Quando si trovano, bisogna tenerli, perché sono preziosi.

L’impresa non è gravida di soggettività, non è l’impresa della paura, non è l’impresa psicofarmacologica. In questo momento, leggiamo i giornali, l’epoca: le Torri gemelle, i treni di coloro che vanno a lavorare, una serie di altri episodi continui. E c’interroghiamo, intorno agli scenari che si preparano.

C’interroghiamo, anche, intorno alla questione ebraica, che è stata elusa da Marx, e intorno alla questione intellettuale, che nessuno di noi può eludere. C’interroghiamo intorno alla questione cattolica, cioè alla procedura per integrazione, anziché per unificazione o per totalizzazione.

Il rinascimento, tra l’altro, mette in rilievo non soltanto l’industria, ma anche la sessualità. Ancora oggi, la Cina è esente da nudo. Ci sono i contorni, ma non c’è mai il nudo. Nell’arte cinese, non c’è il nudo. E il Giappone si è approssimato alla sessualità, attraverso il rinascimento. Mishima viene in Italia e dice: “Io mi accorgo di qualcosa, di cui non mi ero mai accorto: la pittura del rinascimento”. Lo stesso Yasushi Inoue, grandissimo scrittore giapponese, viene a Firenze, guarda l’Annunciazione di Leonardo e, lì, si accorge di qualcosa d’inaudito, d’inedito, d’incredibile, d’inimmaginabile, per l’arte giapponese, come per l’arte cinese.

La Cina, che è la grande questione dopo l’Islam, la grande questione che sorgerà da qui a vent’anni, è già coinvolta nel rinascimento. Per il Giappone ciò è chiaro, ma la Cina è già coinvolta nel rinascimento.

Che cosa compie l’atto di Cristo? Con l’atto di Cristo, viene sconfitto il discorso della morte, il discorso del ritorno, il discorso del cerchio, la vita come impregnata nell’arcaismo, che debba inseguire sempre l’origine, sempre ritornare all’origine, che si chiami metempsicosi o salvezza o in altro modo.

Allora, brainworking significa trovare qual è il processo di valorizzazione dell’impresa, quali sono i dispositivi, senza soggetto. Il soggetto è una cosa, che viene creata contro il rinascimento. Il soggetto è il soggetto alla paura, soggetto alla morte, soggetto che sta nell’infernale, soggetto che ha dinanzi la vita e la morte, il bene e il male. Soggetto del conflitto. Soggetto dell’alternativa. Soggetto del bivio. Soggetto preso nel cerchio. Soggetto Uroboro. Soggetto fenice. Soggetto che deve costantemente nutrirsi della propria morte. Il brainworking è qualcosa d’immensa portata.

Noi abbiamo notato come l’atto di Cristo e il rinascimento, in qualche modo, sconfiggono questo discorso della morte: il principio di non contraddizione, il principio d’identità, il principio del terzo escluso. Altro che ospitalità! Tertium non datur. E che cosa fa Platone? Dice: “Basta con la pittura! Basta con l’arte! Basta con la musica, tutte cose che fanno impazzire! Sono cose che vengono da un dio! Gli artisti sono invasati! Sono posseduti! Invece, il filosofo è padrone”. La padronanza viene contrapposta alla possessione. Ma sono idee che dipendono da questa idea dell’origine.

Non c’è più possessione. E non c’è più padronanza. Questi due concetti, li ritroviamo in pieno negli scritti dell’islam. Non sono i talebani a avere inventato la negazione dell’arte. È Platone. La scuola di Atene viene chiusa da Giustiniano nel cinquecento e i libri della scuola di Atene — Platone e Aristotele — se ne vanno, viaggiano, arrivano a Bagdad. Da Bagdad, arriveranno poi in Spagna, in Sicilia, in Europa. Erano spariti, ma il Corano e gli altri testi sacri dell’Islam sono impregnati del discorso occidentale. È la correzione del cristianesimo, a opera del discorso occidentale. Con altre aggiunte, con costruzioni fantasiose, con altri principi, ma i principi fondamentali sono questi.

La Mecca è una contrada di Atene. Ma l’Islam, ormai — a parte l’islamismo politico, a parte il terrorismo, che, certamente, non è stato creato nei territori dell’Islam, ma veniva dalle grandi dittature del ventesimo secolo in Europa — è tratto anch’esso dal rinascimento. Qual è la questione? Si è discusso per due secoli del proletario, della lotta di classe. Adesso, tutto questo si è volatilizzato. Qual è la questione che l’ebraismo incomincia a affrontare e, poi, è il cristianesimo, è il cattolicesimo a affrontare, ancora di più?

È la questione donna: è questo, che viene evitato dall’Islam, la questione donna. La paura della morte diventa paura della donna. Tutto un sistema, costruito sulla paura della donna.

Tutta una serie di vincoli, di proibizioni, di prescrizioni, di negatività, perché la donna sia solo lì, senza piacere. Quindi, anche la clitoride dev’essere magari tagliata. La donna sta a procreare! Una, due, tre, quattro mogli! Procreare e invadere gli altri paesi, procreando, avendo quattro mogli almeno a casa, a procreare: macchine, per procreare! Basta, eh, sessualità! Non ne parliamo, il piacere è una cosa, che spetta, semmai, solo agli uomini.

La questione donna non viene affrontata. La stessa questione possiamo porre alla Cina, possiamo porla rispetto a altri indirizzi. L’Islam rientra ampiamente nel discorso occidentale. Ma l’Islam, dunque, troverà anch’esso, e la sta trovando — ci sono scrittori, imprenditori, artisti, poeti —, una definizione intellettuale, una definizione culturale e artistica, una definizione rinascimentale. E, allora, anche i testi sacri potranno avere istanze di un certo interesse, da leggere.

Per ora, il Corano non è da leggere, è da eseguire. Quello non è il libro ispirato da Dio, è il libro scritto da Dio. La mano di Maometto era solo uno strumento, Maometto era analfabeta! L’Arcangelo Gabriele dice: “Scrivi!”. E lui, che non sa né leggere né scrivere, scrive. Quindi, che cosa può fare il musulmano? Non può interpretare, non può compiere l’esegesi, non può leggere. Non può dire: “Questo è stato scritto in questa epoca e poi corretto due secoli dopo o quattro secoli dopo”: perché, il Corano, non è che sia rimasto uguale, e così gli altri testi sacri. Ma noi possiamo leggere, cioè capire, intendere, nell’attuale. Senza inseguire un’origine. L’Islam stesso può costituire un’istanza culturale e artistica, proprio perché, oggi, il pianeta intero è e sarà sempre di più il pianeta del secondo rinascimento. Non c’è nulla di più pragmatico dell’astrazione.

(Conferenza tenuta dall’Autore il 2 aprile 2004, all’Auditorium “G. Fini” dell’Unione Industriali di Modena, organizzata dalla Nuova Didactica, Scuola di Management dell’Unione Industriali, e dall’Università internazionale del secondo rinascimento).