LA REGRESSIONE DEMOCRATICA

Qualifiche dell'autore: 
scrittore, docente all'Institut d'Etudes Politiques di Parigi, editorialista de "Le Figaro"

Per scrivere il mio libro La regressione democratica (Spirali), sono partito dal fatto che, mentre, nel XVII e nel XVIII secolo, il progetto politico emergente verteva intorno all’emancipazione dell’individuo dal potere politico e religioso – in modo che l’individuo diventasse indipendente e responsabile delle conseguenze delle proprie scelte –, l’atteggiamento politico attuale sta andando nella direzione opposta. La Francia, il paese dell’illuminismo e della rivoluzione francese, è stata particolarmente colpita dallo shock della globalizzazione. In questo contesto ho sintetizzato il cambiamento attuale con tre parole emblematiche: prudenza, trasparenza e comunità.

Mentre il progetto precedente era di dare indipendenza e responsabilità all’individuo, nell’incremento della prudenza si avverte fortemente la domanda di protezione e di assistenza. In nome della trasparenza, il cittadino deve dare conto allo stato di ogni sua azione. Di conseguenza, si assiste, da un lato, alla crescita del controllo e, dall’altro, alla confusione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato nella vita di ciascuno. Anche in Italia, purtroppo, la televisione ha ormai la funzione di rendere di pubblico dominio fatti privati. Infine, dalla comunità, come senso di appartenenza a un gruppo per motivi etnici, religiosi o di preferenze sessuali, nasce il suo stesso limite, perché in essa la dimensione dell’individuo è circoscritta con una conseguente perdita di libertà.

Queste tre parole chiave – prudenza, trasparenza e comunità – costituiscono un vero e proprio corpus ideologico che rivendica l’intransigenza del controllo politico nella sfera privata, facendo così torto alla saggezza della democrazia, che prevedeva una netta separazione tra il pubblico e il privato. La religione, per esempio, era il più possibile limitata alla sfera privata, in modo da difendere la laicità dello stato. Il diritto era incentrato sul ricorso alle prove e si applicava solo nei casi d’indubbia certezza, mentre oggi si assiste al ribaltamento dell’onere della prova. Nel mio libro il diritto è certamente al centro delle mie preoccupazioni, poiché ritengo che il rigore del formalismo e la laicità del diritto facciano in modo che l’ideologia non comporti conseguenze negative per la democrazia.

Non dobbiamo meravigliarci, dunque, di fronte alla crescente e pericolosa sfiducia nella politica. Credere di sapere tutto della politica e dell’uomo politico ha comportato una crisi della legittimazione e della legittimità. Quando si chiede agli elettori se, per risolvere un problema, preferiscano andare a votare o costituire un ente che ne garantisca la soluzione, la risposta è la seconda. Non si crede più al sistema della maggioranza e si preferiscono leggi ad hoc, che possano favorire il gruppo al quale si è deciso di aderire e del quale si cerca il consenso. La rivendicazione di leggi e di diritti specifici comporta la perdita del valore portante della reciprocità, che fa sì che le leggi siano universali e si applichino a tutti, al cittadino come a chi le ha ideate. E se invece viene a mancare il principio della legge uguale per tutti, la comunità dei cittadini si spezzetta in tante singole comunità identitarie. Ebbene, una tale società non può più essere solidale, può essere efficientissima, ma al prezzo di molte ingiustizie e disuguaglianze. Esempio classico sono le ben note discriminazioni positive. Si creano disuguaglianze che, per essere corrette, producono altre disuguaglianze, provocando frustrazioni. All’interno di un’istituzione, come un’università o un’impresa, constatare che, in nome del privilegio di una categoria, c’è chi ha più diritto di un altro di ottenere un posto di lavoro spezza l’armonia sociale. A questo proposito, di recente, sono riuscito a raggiungere un risultato positivo nella Commissione di revisione dell’organizzazione scolastica. Finalmente, si è capito che bisogna agevolare chi si trova in una situazione svantaggiata, evitando di aumentare la discriminazione positiva e combattendo quella negativa. Ancora non sono riuscito a farlo notare al presidente Sarkozy, ma non è così grave, perché per il momento questi aspetti non sono nel suo programma.

La società della diffidenza non ha conseguenze solo nei confronti dell’uomo politico e della politica, ma s’insinua anche tra i cittadini. Milan Kundera, nel suo romanzo Lo scherzo, fa un esempio perfetto. Siamo a Praga prima del 1968, un ragazzo un po’ frivolo e ingenuo scrive con il nome di Lev Trotsky una cartolina a una sua amica. La polizia lo prende alla lettera. Viene interrogato dal consiglio delle discipline, escluso dall’università e mandato in un campo di rieducazione. Oggi possiamo tranquillizzarci, dicendo a noi stessi che quello era un regime totalitario. Eppure, potremmo chiederci quanto effettivamente siamo liberi di dire ciò che pensiamo. Mi sono accorto nelle mie ricerche che l’umorismo è possibile solo se esiste la fiducia negli altri. Oggi siamo talmente sottoposti a controlli, che abbiamo l’impressione di essere vittime di qualcuno che voglia farci del male. Cito il caso di uno studente che ha ricevuto, come può capitare, una mail da parte di un pedofilo. Il ragazzo ha semplicemente cliccato per sbaglio sulla risposta e ora si trova nella situazione gravissima e difficilissima di dovere provare la propria innocenza. Ecco un chiaro esempio di ciò che dicevo prima sul ribaltamento dell’onere della prova. L’uomo critico è costretto a controllare quello che dice, perché in qualsiasi momento potrà sentirsi rinfacciare le sue stesse parole.

Vorrei infine rispondere alle obiezioni di Carlo Monaco sul punto del mio libro in cui parlo della felicità. È vero che la politica non può farci trovare la felicità, però può impedirla, soprattutto se è compiacente con l’ideologia dominante. Il problema è che questo non s’insegna più a scuola, perché si rischia di venire accusati di fare filosofia, di leggere romanzi, quindi, d’interessarsi a effimere questioni linguistiche. Mentre nei miei corsi di Scienze politiche cerco d’insegnare la storia attraverso la letteratura, questo non succede nella scuola, dove invece assistiamo alla morte clinica del romanzo, non tanto come opera in sé, ma come prezioso riferimento per cercare di capire la storia e la società.

Quindi, penso che si tratti sempre di un problema culturale, le cui risposte sono nell’educazione e nel diritto.

C’è però un altro elemento da considerare: il ruolo degli intellettuali. Gli intellettuali nel XIX e nel XX secolo hanno lottato soprattutto per la libertà, qualcosa che mancava più di ogni altra dalla società. Nel XXI secolo, lottavano per ciò che era più urgente, l’uguaglianza e la giustizia, ma hanno dimenticato la libertà. E penso che oggi non sia assolutamente una regressione storica ricominciare dalla lotta per la libertà.

In conclusione, vorrei precisare che non è vero che l’Italia è arretrata rispetto alla Francia. Anzi, tutte le volte che vengo in Italia per tenere conferenze e lezioni, nelle domande che mi vengono poste noto sempre un interesse sulle questioni di natura internazionale, che mi portano a ricordare il periodo felice in cui ho collaborato con il “Giornale Nuovo” di Indro Montanelli.