MA L’ITALIA È POCO COMPETITIVA

Qualifiche dell'autore: 
imprenditore, membro del direttivo di FITA, Confindustria Emilia Romagna

Ho incontrato Emilio Fontela due volte a distanza di tre anni. La prima è stata in occasione della presentazione del libro Sfide per giovani economisti, che è stato molto importante per le riflessioni che ha fatto sorgere nella mia impresa e tra amici, colleghi e imprenditori. Ma mi ha fatto piacere leggere anche l’ultimo libro, Come divenire imprenditore nel ventunesimo secolo. Metterei allora insieme i due titoli per chiedermi come si possa dire: sfide per giovani imprenditori nel ventunesimo secolo. E, allo stesso tempo, mi chiedo cosa potrebbe pensare Fontela, dal suo osservatorio, della questione italiana, della capacità competitiva dell’imprenditoria italiana e in particolare di quella emiliano-romagnola. Al di là dei ragionamenti sulla new economy e la old economy, che cosa sta succedendo effettivamente alla capacità competitiva del nostro paese e delle nostre risorse umane? E a quella dei nostri imprenditori? In un articolo che ho letto di recente, risulta che l’Italia è ancora poco competitiva nell’attrarre investimenti, attirando solo l’1% di tutti gli investimenti europei in questo ambito. Tra l’altro, provengo da una riunione in Confindustria, dove si è affrontato proprio il problema di come possiamo tenere le aziende multinazionali attualmente presenti in Emilia Romagna: non tanto come farne arrivare altre, ma come non farsi scappare queste, in un mercato e in un’economia in cui l’Italia attrae investimenti internazionali solo per l’1% rispetto agli altri paesi europei.

Il Ministro dell’Industria all’inizio dell’anno diceva che nel 2003 avremo un deficit con l’estero di ventitremila miliardi solo nell’area delle nuove tecnologie, dell’information technology. Questo vuol dire che non abbiamo imprese italiane capaci di soddisfare le esigenze di imprese italiane o di consumatori italiani. E che cosa leggiamo del nostro paese sui giornali? “L’Italia economica imbrigliata”; “meno libertà nel 1990”; “l’Italia fanalino di coda nell’UE”; “siamo al 31° posto insieme alle Filippine e al Perù”; “poca capacità che ha la nostra economia di fare competizione”. E arriviamo all’Emilia Romagna. Leggiamo i dati di un rapporto che esce da Unioncamere sull’Emilia Romagna: “Le imprese offrono tanto lavoro poco qualificato, gli occupati in Emilia Romagna solo per il 5% sono laureati, solo per il 27% sono diplomati, i restanti sono persone con una scarsissima qualifica”. Questo che cosa vuol dire? Che tutti i dati che leggiamo, riferiti alla massa di disoccupazione, in realtà nascondono un’altra occupazione di questo tipo di manodopera, di cui abbiamo certamente bisogno ma che non ci farà fare quel salto che tutti auspichiamo citando le nuove tecnologie e il terziario avanzato. Noi abbiamo già una bassa occupazione in un terziario non innovativo, in confronto agli altri paesi industrializzati in cui ci sono tra il 70 e il 75% di occupati nel terziario. Modena ha un 40% di occupati nel terziario e un 50% nel secondario. Quindi rappresentiamo ancora un’economia molto legata al secondario e scarsissima nel terziario.

Allora mi chiedo, se Fontela dice che la nuova impresa è un’impresa di imprenditori, vuol dire che la mia percezione, leggendo questi dati, è una percezione troppo negativistica? Possiamo pensare che ci sarà anche per l’Italia un recupero nei termini di capacità competitiva complessiva anche nella pubblica amministrazione? La nostra regione è al 27° posto per le infrastrutture viarie e forse al 35° per quelle ferroviarie in Europa. Se la logistica e i trasporti saranno importanti, – perché, se è vero che con la trasmissione dei bit dovremo far viaggiare forse meno atomi, i prodotti devono comunque girare –, di fronte a una situazione complessiva che ci vede scarsamente capaci di produrre nuova tecnologia, perché importiamo tutto, con una bilancia dei pagamenti messa così, con la nostra manodopera non qualificata, come facciamo a far crescere nuovi imprenditori, che siano in proprio o all’interno dell’impresa, e mantenere un livello di benessere come quello che è stato raggiunto alla fine degli anni ‘90? Cito un distretto che da diversi anni è in declino industriale irreversibile, quello di Carpi, è un destino del territorio che non può essere risollevato con queste nuove tecnologie perché la cultura locale imprenditoriale non è in grado di assorbire né di trasformare la vecchia cultura della cosiddetta old economy in una cultura della new economy. Mi pongo queste domande lungo la lettura dei due libri di Fontela, anche perché sono entrambi interessanti e importanti e toccano con acutezza i temi del futuro e dell’impresa.