COSA TUTELARE, QUALE SICUREZZA

Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, Ordine degli Ingegneri della provincia di Bologna

Il libro di Massimo Stucchi L’acqua, il fuoco, la civiltà (Spirali) mi ha colpito per il concetto che lo ispira: la sicurezza è una questione di cultura più che di norme, come il libro di Lorenzo Jurina Vivere il monumento. Conservazione e novità (Spirali) mi ha affascinato perché propone l’interessante idea di “conservazione come atto di vita”, un atto che non tenda a mummificare un immobile, bensì a garantirne la vita nel futuro.

Mi sembra che ciò sia attuazione molto intelligente della Carta del Restauro, scritta (e per certi versi dimenticata), nel 1985 a Granada, da tutti gli Stati europei, e recepita in Italia nel 1989. Tra i tanti criteri che essa proponeva, ritengo interessante sottolinearne alcuni. Il primo, credo mai attuato in Italia, dice che ogni Stato membro ha il dovere di fare un inventario dei propri beni culturali e dei propri monumenti. Il secondo che si deve tendere a una “politica di conservazione integrata”, che, oltre allo Stato, veda come attori i proprietari, gli utenti e le istituzioni che usufruiscono di immobili importanti per la cultura e la ricchezza del paese. Il terzo criterio, come Lorenzo Jurina ha scritto in vari punti del suo libro, dice che l’utilizzo dei beni protetti deve essere attuato secondo le necessità di vita contemporanea con l’adattamento, quando è possibile, agli usi attuali: per esempio il Colosseo è un monumento che parla da sé, mentre una basilica, un castello, una piazza o un centro storico hanno bisogno della vita per mantenersi vivi, per essere tramandati ai posteri. Ultimo punto che cito dalla Carta del Restauro: l’esigenza d’incoraggiare le iniziative private, cosa di cui nella legislazione italiana si è quasi persa ogni traccia. Oggi, ogni decisione è sottratta alla cittadinanza e è riservata a uffici lontani dalla gente, spesso non al corrente delle necessità e delle occasioni che possono presentarsi. Inoltre, la modifica dell’apparato normativo precedente (L.1089/39) con l’introduzione dell’articolo 12 del D.L.vo 42/2004 – che considera tutelati gli immobili di proprietà di enti giuridici da oltre cinquant’anni se non sia stato espresso il parere di competenza del Ministero – ha inserito di fatto tra i beni tutelati tutti gli immobili, compresi stalle e fienili, se posseduti da enti giuridicamente riconosciuti. Quando, per esempio, un comune o una fondazione ricevono in eredità un appartamento in un condominio, automaticamente, quest’ultimo e le parti comuni del condominio sono considerate tutelate, con tutte le complicazioni burocratiche e penali che ne conseguono, poiché ogni piccolo intervento deve essere preventivamente autorizzato dagli enti competenti. Ciò crea una discrasia tra cittadinanza e soprintendenze poiché immobili importantissimi (scuole e ospedali, per esempio), che hanno sede in strutture vecchie, già hanno grandi difficoltà di vita pratica anche per le minime opere di manutenzione. Per questo colgo l’occasione per fare una proposta: s’istituiscano luoghi paritetici (Ministero e soggetti interessati al Bene) ove effettuare la verifica e il giudizio delle caratteristiche di importanza culturale di ogni immobile, individuando quelli realmente importanti da tutelare.

Un ulteriore aspetto del libro di Lorenzo Jurina che mi ha colpito è il riferimento ai Lavori Pubblici: egli rammenta che le leggi sugli interventi sugli edifici pubblici esistenti, che prevedevano il cinque per cento di variabilità in sede d’esecuzione, ora prevedono il dieci. L’Autore propone di portare questa percentuale al venti per cento: sono d’accordo con lui, perché quando si lavora su un fabbricato vecchio o antico, deve essere ammessa la possibilità di effettuare verifiche progettuali più approfondite in corso d’opera, sia per l’aspetto strutturale sia per gli apparati pittorici e ornamentali, in modo da meglio adeguare alla realtà del monumento il progetto e ottimizzarne i costi. Ho avuto l’esperienza della cupola (alta oltre cinquanta metri) di una chiesa di Bologna dove, nonostante ripetuti sopralluoghi anche con l’ausilio di moderne attrezzature è stato impossibile comprendere fino in fondo la situazione prima dell’inizio dei lavori. Solo quando il ponteggio è realizzato si riescono a esaminare le cose con attenzione. Quattro anni fa abbiamo restaurato internamente e esternamente la cupola tra le torri di San Bartolomeo e San Gaetano, sempre a Bologna. Comparando il progetto iniziale a ciò che effettivamente è stato fatto, peraltro con la piena e totale collaborazione della Sovrintendenza, constatiamo una differenza enorme. Degli 800.000 euro stanziati per i lavori, ben 150.000 sono stati usati per lavori aggiuntivi di miglioramento del risultato finale. Era un lavoro privato, se fosse stato pubblico, difficilmente si sarebbe potuta fare un’operazione di questo genere.

Concludo rifacendomi al libro di Massimo Stucchi, che sottolinea l’importanza della cultura della sicurezza e della partecipazione al processo di costruzione della sicurezza. È evidente che la sicurezza non può essere fatta sulla carta, come qualcuno che scrive leggi vorrebbe convincerci a fare. Non mi riferisco tanto alla prevenzione incendi, ma, per esempio, ai piani di coordinamento della sicurezza: siamo certi che siano serviti a aumentare veramente la sicurezza dei cantieri? Assolutamente no, hanno solo aumentato i costi, mentre sarebbe stato meglio riversare quel denaro nella formazione delle maestranze, che devono sapere come dev’essere fatto il lavoro per non andare incontro a rischi. Rispetto alla prevenzione incendi, invece, sappiamo che in Italia esistono ottime norme e abbiamo la fortuna che le nostre strutture sono quasi tutte incombustibili, perché noi non abbiamo la cultura abitativa del provvisorio, della casa di legno, che si smonta. Ma, se la nostra gente ha una preparazione sufficiente in termini di prevenzione e di sicurezza, si possono evitare gravissimi danni in caso d’incidente.