DIMENSIONE SIMBOLICA E CULTURA MATERIALE

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critico d'arte, docente di Fenomenologia degli stili all'Università di Bologna

Per intervenire a questo dibattito ho ceduto alle pressioni degli amici Sergio Dalla Val e Armando Verdiglione, ma forse avrei dovuto rinunciare per mancanza di competenza. Una caratteristica propria alla struttura universitaria, infatti, è la sua scarsa corrispondenza con il mondo delle soprintendenze. Questo è un errore: all’interno dei beni storico-artistici sarebbe opportuno costruire figure ad hoc come in parte si sta facendo. Il sistema universitario è suddiviso in quattro gruppi: L-Art/01, L-Art/02, L-Art/03 e L-Art/04. La L sta per “Lettere”, ossia la Facoltà di Lettere, che ci tiene imprigionati. Una delle ragioni per cui i beni e le attività culturali in Italia sono sempre secondi, terzi o quarti è proprio questo primato delle belle lettere, le humanae litterae, che regnano sovrane. Come succede anche a scuola, dove il docente di lettere monopolizza la maggior parte delle ore di lezione settimanali, mentre alla storia dell’arte restano le frattaglie e alla musica, al cinema e al teatro addirittura neanche quelle. Anche nei programmi di revisione previsti sembra che le cose non accennino a cambiare. Ma, tornando ai quattro gruppi del sistema universitario già ricordati, purtroppo uno di questi, L-Art/03, storia dell’arte contemporanea, fino a poco tempo fa non aveva un equivalente nel mondo della soprintendenza, che si fermava al moderno. Sul moderno può intervenire un grande equivoco terminologico: nell’accezione accademica, il moderno va dalla seconda metà del quattrocento fino al settecento, cioè fino al Tiepolo. Come sapete, un eccellente rappresentante della soprintendenza, che ha avuto la fortuna, per tutti noi, di diventare ministro dei Beni Culturali, Antonio Paolucci, si è lasciato scappare un’eresia proprio in questo senso: “Mettiamoci bene in testa che la grande arte italiana finisce con Giambattista Tiepolo”, ha affermato, dimenticando che dopo è venuto il grandissimo Canova. Io sto per pubblicare una storia dell’arte contemporanea in Italia che parte proprio dal Canova, e arriva a Burri. Il sistema universitario, quindi, è corso ai ripari istituendo L-Art/03, in cui è collocato il mio insegnamento. Qualcosa di positivo l’ha fatto anche il Ministero dei Beni Culturali, dandosi una direzione per l’arte contemporanea e aggiungendo alla dizione un po’ statica di “beni culturali” anche la parola “attività”, termine che dà un tono proiettivo, sperimentale e dinamico, rivolto non solo alla conservazione del passato ma anche alla produzione dell’oggi e del domani.

A proposito del libro di Roberto Cecchi, comincerei con una riflessione che potrebbe essere leggermente critica sul titolo, I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà: i beni culturali devono rimanere in una dimensione simbolica, o ideale che dir si voglia. Dico questo non per incoraggiare una concezione stupida e fatua che crede che gli artisti e i musicisti si limitino a guardare le nuvole in cielo. Questa è la più stupida posizione che possiamo immaginare, perché gli operatori del livello ideale e simbolico sono strettamente connessi con la cultura materiale. Io riformulerei leggermente il titolo in direzione della testimonianza di opere simboliche o ideali e porrei l’accento sullo stretto rapporto con la cultura materiale, intendendo per cultura materiale la tecnologia. Da un lato, della tecnologia si dice fin troppo bene, dall’altro, quelli che coltivano le nuvole vorrebbero liberarsene ritenendo una cosa vergognosa occuparsene. Io parto da un sano materialismo di tipo storico, o culturale, o tecnologico: noi siamo quello che la tecnologia ci fa essere. Tu dimmi chi sei, cioè quale sia la tecnologia di cui fai uso, e io ti dirò come mangi, come vesti, come ragioni, come fai filosofia e soprattutto come fai arte. L’arte infatti è strettamente innervata a questo livello di cultura materiale. Come avete ben capito, io guardo le cose secondo una chiave generalissima o se volete filosofica. E non occorre avere paura della filosofia: in ciascun settore, dobbiamo chiederci quali metodi e quali criteri utilizziamo, e questa è la filosofia. Ora, la filosofia di questo libro mi trova perfettamente d’accordo, perché, come già accennava Verdiglione, è basata sul concetto di contesto prima di tutto, e non di opera singola. C’è una parte bellissima, che è uno dei contributi più piacevoli di questo saggio, che esamina la lunga storia dei vari restauri del Cenacolo di Leonardo, giungendo a ravvisarvi una sorta di accanimento terapeutico. Il restaurare con insistenza il singolo oggetto o la singola opera, decontestualizzandola, separandola dall’ambiente in cui vive – ambiente in tutti i sensi: naturale, urbano, economico, ideale, filosofico – è l’operazione più sbagliata che possa compiersi. Dal mio punto di vista filosofico e generalista, apprezzo moltissimo l’accento che Cecchi pone su questa nozione di contesto, che poi è dominante nell’arte contemporanea. L’arte contemporanea si distingue dalla precedente perché critica severamente il concetto di opera singola e separata. Disapprovo gli studenti che all’esame mi parlano di quadri anziché di opere. I quadri, in particolare la tela dipinta montata su un telaio quadrangolare, coprono un periodo brevissimo della storia dell’arte che va da Caravaggio e dai Carracci fino all’impressionismo e alle prime avanguardie storiche, ma poi sono stati superati.

Oggi l’arte invade l’ambiente, abbandona le pareti, si installa sui pavimenti, pende dai soffitti, oppure esce fuori dai musei per occupare vie, piazze, siti naturali. È appunto il trionfo del contesto su un singolo reperto che viva entro un perimetro limitato.