LIBERA CONCORRENZA E COMPENSAZIONE SOCIALE

Qualifiche dell'autore: 
Economista, direttore Programma Relazioni internazionali (Webster University, Ginevra)

Non parlerò propriamente del valore dell’impresa, ma dell’ambiente che la circonda e ne determina, sia a lungo sia a breve termine, il valore.

Stiamo vivendo una situazione difficile, ma penso che il pessimismo e il cinismo non possano essere accettati, ritengo che un ottimismo illuminato sia l’unica strategia valida oggi. Non c’è una vera alternativa, né in Europa né nel resto del mondo, a ciò che io chiamo il modello occidentale di competizione e solidarietà, nato negli ultimi sessant’anni. Senza la competizione, la solidarietà si trasforma in socialismo e, senza la solidarietà, la competizione diviene politicamente e socialmente inaccettabile. Quindi, la questione più importante è trovare il modo di adattare questo modello a tutte le nazioni del mondo.

Qual è il paradosso del ventesimo secolo? Negli ultimi cento anni abbiamo visto guerre terribili, regimi totalitari, genocidi, terrorismo e povertà, ma, allo stesso tempo, si sono consolidati la democrazia, la libertà, la prosperità, il progresso sociale, e la pace, che si è diffusa in un modo insperato e mai visto prima. Ciò che risulta da questo lungo corso del ventesimo secolo è che i responsabili delle guerre hanno perso e hanno lasciato il posto alla democrazia e al progresso. In questo senso dico che il cinismo e il pessimismo non sono giustificabili. È risaputo, soprattutto nel mondo del business, che la nostra realtà sociale si basa sulla cooperazione e sulla competizione, senza il ricorso all’uso della guerra. Per questo, con l’evoluzione degli ultimi sessant’anni, abbiamo visto realizzarsi la famosa “pace perpetua” di Immanuel Kant.

Una conquista degli ultimi tempi è quella che viene chiamata la globalizzazione, che pone varie questioni, tra cui, la più importante e limitativa riguarda il primato della finanza sull’economia. Ci sono stati anni in cui l’economia era in mano ai tecnici che investivano sullo sviluppo di nuove tecnologie e nuovi prodotti, oggi invece il successo di un’azienda è determinato esclusivamente dal prezzo delle azioni in Borsa. Siamo passati da una visione a lungo termine a una visione che cambia giornalmente o settimanalmente, secondo il prezzo del titolo in Borsa. Il valore delle azioni sono divenute l’espressione del valore delle imprese in tutto il mondo, e ciò significa che è possibile equiparare una fabbrica di biciclette in Nepal a un’azienda di componenti per il nucleare in Svezia.

Il mercato globale inoltre porta con sé diverse questioni politiche. A questo proposito, un luogo comune che ha molto successo è che “I paesi ricchi diventeranno sempre più ricchi e i paesi poveri sempre più poveri”. Ebbene, i due più grandi paesi poveri, la Cina e l’India, lo stanno smentendo, realizzando un fenomeno che nessun economista avrebbe mai creduto possibile, ma che certamente, senza la globalizzazione, non sarebbe avvenuto. Per capire questo basta soffermarsi a pensare cosa sarebbero ora il mondo e l’economia senza l’opportunità di pensare in termini globali. Eppure, nei dibattiti politici di tutti i paesi occidentali si dice che la globalizzazione sta rovinando l’economia interna. Molti credono che per essere presenti nel mercato globale non bisogna condurre una politica sociale, ma io penso che sia un’idea degli accademici che non corrisponde a ciò che gli imprenditori constatano nell’esperienza di ogni giorno.

L’ultima sfida lanciata dalla globalizzazione è la paura della competizione, avvertita in particolare dalle grandi aziende, perché le piccole e medie l’hanno sempre vissuta, a Modena come a Ginevra. La General Motors a Detroit ha cominciato solo ora ad avere paura della competizione, così come la Microsoft. Per questo motivo globalizzazione significa anche acquistare o eliminare aziende concorrenti. Molte megafusioni tra società non avvengono per aumentare l’efficienza ma per combattere meglio la concorrenza. Naturalmente, a livello nazionale esistono leggi che regolamentano la concorrenza, mentre non esiste un sistema universale che renda illegali le fusioni che mirano a eliminare in modo scorretto i competitors.

C’è il rischio di una forte reazione negativa che comporti una retrocessione. Questo perché abbiamo dimenticato che il sistema liberale ha bisogno di un approccio equilibrato e che il progresso non deve lasciare indietro nessun paese. Il mezzogiorno, per esempio, è un problema da affrontare, non può essere abbandonato per il presunto bene dell’intera nazione. La soluzione per l’Europa è l’economia sociale di mercato che si basa sulla libera concorrenza e contemporaneamente su una politica di compensazione sociale.

Tornando alla questione della guerra, è necessario ricordare che una pace permanente e universale è possibile e che non è una questione etnica o storica, perché le nazioni europee che sono state maggiormente vittime di guerre hanno adesso raggiunto una pace stabile. Non c’è nessuna ragione per cui anche in Africa e in altre aree non possa accadere lo stesso, ma dobbiamo intendere che non possiamo permetterci guerre e violenza, e sto parlando da economista. Per citare i classici: “L’utilità marginale della violenza è diventata negativa”. E questo non vale solo per i paesi poveri. I terroristi che fanno scoppiare le bombe in Israele non raggiungono gli scopi dei palestinesi e così gli USA non realizzano i loro obiettivi in Iraq e in Afghanistan. Questo dovrebbe far capire che è nel nostro interesse che la pace divenga universale.

Se, solitamente, l’ordine internazionale è trasparente e facilmente deducibile, oggi ci troviamo in uno stato di confusione tale che non riusciamo in nessun modo a spiegare quale sia l’attuale ordine internazionale. Diciamo di essere una democrazia liberale per la libertà e il progresso, ma, sfortunatamente, non possiamo isolarci dai paesi che convivono con la guerra e la povertà. Dobbiamo divenire più consapevoli dei motivi che hanno contribuito al successo dell’occidente e estenderlo al resto del mondo, introducendo, accanto al valore della concorrenza, quello della solidarietà, perché l’occidente ha la responsabilità assoluta dei paesi emergenti.