UNA RABBIA DI BAMBINO

Qualifiche dell'autore: 
filosofo, scrittore

Molti mi chiedono perché il mio libro s’intitoli Una rabbia di bambino (Spirali). Ho vissuto dai tre ai sette anni in una famiglia che era illegale per tre ragioni: innanzitutto perché era una famiglia di rifugiati provenienti dalla Germania e dall’Austria, poi perché era una famiglia di ebrei e infine perché era una famiglia di resistenti. Non ne ho sofferto in modo particolare, perché sono stato protetto da tre donne, le mie due sorelle maggiori e mia madre, e il resto del tempo l’ho trascorso tra collegi, ospedali, fattorie, naturalmente sotto falso nome. Ma la mia rabbia è nata dopo la guerra, quando gli adulti hanno cominciato a spiegarmi che ormai vivevamo in un mondo in cui tutto andava bene, che la pace sarebbe regnata ovunque e quindi che bisognava dimenticare. Diciamo che non c’era alcun merito da parte mia nell’arrabbiarmi, nel ritenere poco normale quanto mi veniva chiesto. Mi veniva chiesto di dimenticare quel periodo di vita che va dai tre ai sette anni, periodo in cui avevo imparato a leggere, a scrivere e a pensare e avevo fatto tutte le mie esperienze: se l’avessi dimenticato non sarei più esistito, non avrei avuto più infanzia. Quindi non ho alcun merito in questo, la mia è stata una normale reazione.  

Ho ritrovato questa rabbia quando è crollato il muro di Berlino. Perché in quel momento mi venivano spiegate esattamente le stesse cose che mi spiegavano gli adulti alla fine della guerra, quando ero bambino. Mi veniva detto che la guerra era finita, che tutto sarebbe andato bene, che non ci sarebbe più stata una guerra, che tutto sarebbe stato razionale, che avrebbe regnato la pace. Le idee sono leggermente cambiate dopo l’attacco alle torri gemelle, quando si è cominciato a pensare che il terrorismo fosse un grande problema. Ma l’Europa, anche se non tutta, continua a sognare allo stesso modo ciò che mi raccontavano gli adulti quando avevo sette anni.

Da quando si è detto che sarebbe iniziato un periodo di pace senza guerre, da quando l’impero sovietico è crollato, un ceceno su cinque è morto negli ultimi dieci anni: probabilmente ne sono morti già duecentomila, di cui almeno quarantamila bambini. Da quando la storia sarebbe dovuta diventare pacifica, c’è stato l’ultimo, in termini di tempo, grande genocidio: in tre mesi sono stati uccisi in Africa più di un milione di tutsi, probabilmente al ritmo di diecimila persone al giorno, quanti esattamente non si sa. E quando ne discuto con rappresentanti di un governo – tedesco, italiano o francese –, queste persone hanno reazioni umane, diciamo che sono rattristate da quanto sta accadendo, ma non fanno nulla.

Ho riflettuto molto su questa espressione: “crimine d’indifferenza”, che Hermann Broch usò a proposito della complicità con il nazismo. Potete anche chiamarlo crimine d’ignoranza volontaria, quello che in tedesco si chiama wegschauen, che significa letteralmente “guardare altrove”. Questo si fa o si può fare anche di fronte a cose che uno non vuole vedere, a cui decide di non fare attenzione o meglio fa attenzione a non fare attenzione.

Credo che nel ventunesimo secolo corriamo il rischio di rimpiangere il ventesimo, malgrado i gulag, i lager e due guerre mondiali. Dal ‘45 in poi ci sono stati due modi per riuscire a fermare l’avventura umana, due modi diversi di annientare: quello di Hiroshima, di tipo tecnologico, e quello di Auschwitz, una modalità ideologica e psicologica. Dopo l’uso dell’atomica come arma di dissuasione, c’è stato un equilibrio che ha rischiato di precipitare, come dicono oggi gli storici, con l’incidente di Cuba tra Krusciov e Kennedy. Ma le cose non sono precipitate fino a oggi perché esistevano questi due tabù: quello di Auschwitz e quello di Hiroshima. Tutti sono d’accordo nel non considerare l’arma atomica un’arma come tutte le altre, tutti si ricordano della barbarie che l’arma atomica ha provocato durante la seconda guerra mondiale. Quando Mao ha detto che anche se avesse perso un terzo della popolazione della Cina usando l’atomica non sarebbe stato un gran male, perché la popolazione cinese sopravvissuta avrebbe finito per governare il mondo, persino Stalin è rimasto sconcertato e si è ribellato a questa affermazione. Ma l’affermazione di Mao in fondo è molto vicina a quanto viene detto oggi, e non dai più estremisti: Rafsanjani, neanche Aminajab, ha detto che in fondo gli israeliani sono cinque milioni, quindi, possiamo anche radere al suolo Israele. Certo ci sarà una risposta d’Israele, uccideranno forse quindici milioni di iraniani, però, tutto sommato, i musulmani sono un miliardo, non sarà una gran perdita, possiamo anche eliminare Israele! Questo tipo di calcolo ha fatto sempre orrore a tutti, eppure oggi c’è chi osa pronunciare frasi simili. Per un verso, Aminajab dice che Auschwitz è una favola, che non è mai esistita, e si permette anche di scherzare su Auschwitz e su ciò che ha significato la morte di sei milioni di ebrei. Per l’altro, oggi non viene più riconosciuto quello che sempre veniva detto, cioè che l’arma nucleare è un’arma diverse da tutte le altre. Oggi si parte dal principio che in fondo può essere anche utilizzata, mentre invece gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno sempre pensato che non andasse fatto. La scomparsa di questi due tabù, non solo nel mondo musulmano (una cosa del genere potrebbe benissimo accadere anche con la Corea del Nord), mi fa pensare che la situazione non sia affatto rosea.