"IL SENSO CHE HA PAROLE"

Qualifiche dell'autore: 
poeta, presidente della Compagnia delle Opere

Una cosa che mi ha colpito nel libro Dal computer agli angeli di Padre Busa – senza entrare nel merito della materia di cui si occupa, perché non m’intendo né d’informatica né di teologia – è un aspetto stilistico, questa specie di continua, per dir così, “ruminazione”. Per inciso, è curioso che un soprannome di San Tommaso fosse proprio “il bue”.

Dunque, mi ha colpito nel libro l’andamento del pensiero per ruminazione, il suo procedere per frasette che sono come un ruminare continuamente sul significato delle cose, delle parole che si stanno usando. Oltre a essere un’annotazione stilistica, credo che questo ci dica qualcosa di più intorno a un modo di pensare in termini metodologici e anche intorno alla preoccupazione che ha mosso Padre Busa: tutto comunque nasce da una fortissima concentrazione sul problema del significato. Per chi come me si occupa normalmente di letteratura e di poesia, questa potrebbe sembrare una cosa scontata, ma non lo è per niente, perché è molto facile che, anche nel mondo di chi normalmente si occupa di parole, la ruminazione sul senso e sul significato sia invece in secondo piano. Mi ha colpito, per esempio, che uno scrittore come Calvino termini le sue Lezioni americane con una frase che sostanzialmente potrebbe coincidere con lo spot di una compagnia telefonica dell’era di Internet: “In fondo l’uomo è ciò con cui si connette, io sono le relazioni che ho, ciò che riesco a visitare, ciò che riesco a vedere, ciò che riesco a conoscere”. Questo era Calvino e questo è anche un provider. Qui la ruminazione sul significante è assente, quella di Calvino è un’immagine antropologica e quindi anche letteraria in cui la ruminazione sul significante è assente.
Questa ruminazione, come un boccone in bocca, non è una ruminazione arrabbiata, ma qualcosa che dà gusto. È la ruminazione di qualcuno che sente un buon sapore in bocca e continua a ruminare. Mi viene in mente un importante critico e traduttore della letteratura francese che nelle sue riflessioni sulla traduzione dice: “Non sono le parole che hanno senso, ma il senso che ha parole”. Questa frase è come se rovesciasse il modo con cui noi parliamo delle parole. Nella poesia si fa proprio l’esperienza di una ruminazione, di qualcosa che prende parola. Quasi tutti i poeti, quelli autentici, parlano della nascita della poesia nella loro esperienza come di qualcosa che comincia con un mormorio, un po’ informale – penso a certe pagine di Pavese o di Ungaretti –, che poi prende ritmo, prende parola. Quindi è vero che il senso ha parole e non le parole senso?