ARCHESTESIE

Qualifiche dell'autore: 
docente del Politecnico di Milano, socio fondatore di ETNOTEAM

L’idea di fondo di Archestesie (Spirali, 2005) nasce da diverse esperienze che derivano, come Sergio Dalla Val ha indicato, da molteplici traiettorie di conoscenze che percorrono le esperienze di noi tre autori. Ettore Lariani è architetto. Francesco Rampichini è musicista e compositore e, quindi, per forza un po’ matematico, e io vengo dalle tecnologie, dall’informatica.

Molti elementi del testo derivano da un approccio neo-strutturalista, di ricerca di relazioni e strutture all’interno degli artefatti comunicativi, senza pretendere, come lo strutturalista potrebbe aver voluto, di spiegare con ciò l’essenza delle cose, ma con la convinzione che questo è un passo più in là nella conoscenza.

Parliamo di archestesie, di sinestesie. A me piace riportare l’esempio di un bambino ancora in fasce, che ha un’esperienza globale. Quando la mamma si avvicina, a pochi mesi di vita, il bambino ha percezioni, ma non distingue tra il rumore della strada, il calore del sole, l’odore della mamma, il colore della parete, i rumori intorno; è una percezione complessiva. Quando via via cresce, questa percezione comincia a essere organizzata, e le varie componenti classificate. Il bambino riconosce, per esempio, che quel fenomeno del rumore che arriva dalla strada è estraneo al colore della parete, e riconosce che quel colore della parete ha in comune qualcosa con un certo libro, un certo fiore, e chiama quel qualcosa giallo. Il colore giallo non esiste come entità, è un’astrazione; il colore giallo è un attributo di un certo insieme di percezioni; quindi, il colore giallo appartiene a tante cose ma non esiste da solo.

Il colore giallo, e su questo abbiamo il conforto di alcuni neurofisiologi, corrisponde al fatto che esiste un organo, organizzato dall’interno del cervello come struttura cerebrale, come struttura per riconoscere quell’astrazione.

Evidentemente, i sensi non stanno negli organi sensoriali; i sensi stanno all’interno del cervello: gli organi sensoriali sono strumenti di ricezione dei segnali ma non hanno niente a che vedere col senso, tanto che persino il giallo non è percepito con gli occhi ma col cervello.

Da qui l’idea che i cosiddetti cinque sensi che ci insegnano fin dalla più tenera età a interpretare siano tutt’altro che cinque. Pensate al dolore: dove ha la sede il dolore? Il mal di denti è dolore? Certo. Il mal di testa, però, è in un altro posto. Il mal di testa e il mal di denti si assomigliano. Ma il mal d’amore? Anche questo è dolore, lo sappiamo tutti, e lo chiamiamo male perché noi ne stiamo male. La nausea è un altro tipo di male. Quando ci scottiamo, dove sentiamo? È tatto? No, il tatto non ha niente a che vedere col calore e la percezione del calore. Quando sentiamo freddo nelle ossa, dove sta questo senso? Evidentemente, le percezioni non stanno dentro gli organi di senso ma proprio dentro a interpretazioni, molto spesso di natura linguistica.

Ciò ha validità molto più ampia; interpretiamo in termini linguistici quello che sto dicendo: quello che noi percepiamo come alto-basso può essere visto come alto-basso nella vista, alto-basso nell’udito, alto-basso nell’umore, nei valori di borsa, in tantissime cose.

Numerose sono le suggestioni linguistiche e metaforiche a cui siamo abituati; per esempio, un gruppo di individui alti e bassi possono eseguire canti con alti e bassi; i bassi in una partitura musicale sono in basso e gli alti sono in alto, e anche l’essere su e l’essere giù sono elementi che si rifanno a metafore linguistiche; anche la Borsa va su e giù.

Molti paradossi sono legati al gioco con i cinque sensi: molti lavori di Escher dicono alto-basso da un punto di vista e lo negano da un altro.

Lo stesso vale per il contrasto: contrasti percettivi nella forma, nel colore, nelle relazioni; contrasto è anche il termine che usiamo per una competizione, il contrasto è una figura della scherma, è anche una forma poetica o musicale, o addirittura contrasto è anche concettuale, come un’immagine che riporta un bambino con un vecchio, un edificio moderno accanto a uno nuovo, o un ricco accanto a un povero.

Forse dovremmo cominciare a pensare, e da qui nasce l’ipotesi su cui abbiamo discusso, che i sensi più primitivi, più profondi (nel senso di originari) siano quelli delle relazioni e non quelli dei segnali; forse il concetto di contrasto nel colore, il concetto di contrasto nella forma, quello nel sapore corrispondono alla stessa percezione, non a percezioni diverse; si tratterebbe di interpretazioni diverse di fenomeni differenti su canali differenti, ma che portano allo stesso sentire.

In qualche modo la nostra struttura cerebrale sarebbe organizzata per avere, dalle percezioni primitive (come da luce e suono), una capacità di interpretazione, di elaborazione metaforica per riuscire a costruire il vero sapere, che è nelle relazioni.

Abbiamo dei conforti nelle nostre ipotesi: conferme arrivano da pensatori e neurofisiologi come Ramachandran e Zeki.

Abbiamo creato un nuovo termine, “archestesie”, perché “sinestesia” non rende l’idea: non si tratta di  uno scambio di percezioni, non è confusione di sensi. Archestesia è l’idea che la percezione non stia nei sensi ma stia nella capacità di alcune strutture cerebrali di percepire relazioni.

Abbiamo indagato su queste ipotesi, e abbiamo riconosciuto che molti autori l’hanno usata, consciamente o no; nella musica, Webern ha usato strutture geometriche rappresentandole nella partitura; nella pittura, Chagall ha giocato con le relazioni tra figure, simboli e significati; nel cinema, un esempio archestetico è nella co-progettazione dell’Aleksandr Nevskij da parte di Ejzenstein, che dipinge scene e inquadrature, e di Prokof’jev che ne co-progetta le musiche.