NELL’IMPRESA OCCORRONO COSTANZA E TENACIA

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Chi è riuscito a divenire imprenditore sente il compito civile di restituire la sua esperienza attraverso una pratica di formazione che lei, come fondatore e presidente di realtà importanti nel territorio, ha incentivato in trent’anni di attività.

Il vero imprenditore è colui che vuole costruire, per questo occorre che abbia un progetto e instauri dispositivi con persone preparate che lavorano in squadra. La preparazione, l’organizzazione e la formazione dei collaboratori costituiscono quindi la base fondamentale che un’impresa deve avere per trovare la sua particolarità e garantire l’avvenire del progetto. Inoltre, l’imprenditore ha il compito di valorizzare il personale e il gruppo di lavoro cogliendo i talenti di ciascuno. Dopo trent’anni di attività come imprenditore, posso dire che questo fa la differenza tra un’impresa e l’altra e comporta una restituzione alla città e alla civiltà. Fare l’imprenditore è anche una missione, perché l’imprenditore autentico non mira soltanto al profitto, contrariamente a quanto oggi si afferma troppo spesso. E lo dimostra il fatto che, nelle collaborazioni avviate in trent’anni di attività con vari istituti locali e provinciali, la formazione dei dipendenti non si limitava alle competenze tecniche di cui la nostra azienda aveva bisogno, tant’è che i giovani che si sono impegnati di più hanno avuto la possibilità di divenire imprenditori.

In alcuni ambiti imprenditoriali e anche professionali c’è l’idea che chi impara possa appropriarsi indebitamente del know-how dell’impresa e quindi diventare un potenziale concorrente. Perché lei, invece, ritiene che la ricchezza di un territorio stia nella formazione dei giovani all’impresa?

È questione di mentalità. C’è chi si circonda di persone incapaci per primeggiare e chi si circonda di persone capaci con cui confrontarsi. Io preferisco avere tanti collaboratori bravi che mi dicano “Signor no”, piuttosto che tanti collaboratori cattivi che mi dicano “Signor sì”. Chi vuole fare impresa deve avere collaboratori capaci e preparati e se non lo sono deve dare loro il massimo perché lo diventino. È interesse dell’impresa e della società che il personale sia sempre più preparato e attivo all’interno delle aziende.

Come dire che l’imprenditore è sempre orientato a costruire valore, che in un certo luogo comune viene scambiato con il valore economico. Mi pare, invece, che lei intenda come si tratti di giungere al valore intellettuale…

L’imprenditore è divenuto tale perché si è guadagnato sul campo quello che ha, perciò non può che incentivare gli altri a fare altrettanto. Per capire come si diviene imprenditori occorre mettersi alla prova nella fabbrica, così ho fatto anche con le mie due figlie, che a sedici anni sono andate in produzione a lavorare come gli altri operai. È un fatto culturale, e solo così si cresce.

In due bellissimi libri di Emilio Fontela, dal titolo Sfide per giovani economisti e Come divenire imprenditori nel ventunesimo secolo (Spirali), l’autore delinea le caratteristiche del brainworker, che rilancia la funzione dell’imprenditore come lavoratore di cervello, colui che non delega il cervello e la strategia dell’impresa. Cosa pensa della figura del manager, spesso deputata alla strategia dell’impresa?

Sono due scuole completamente diverse. L’imprenditore è una persona che pensa all’impresa e pensa all’impresa proiettata al futuro ventiquattro ore al giorno. Il manager è un dipendente, un amministratore che ha tempi di verifica molto più brevi, perché ha un mandato da soddisfare. Così come esistono le scuole per manager, occorrerebbe una scuola d’impresa dove i manager possano approfondire qual è la funzione dell’imprenditore. La scuola è nell’impresa e lo dimostra il fatto che si capisce se il manager può diventare imprenditore nel momento in cui l’imprenditore gli dà la possibilità d’investire nell’impresa. Se un manager investe e diventa un manager imprenditore, cambia completamente la sua filosofia, il modo di operare e di ragionare perché rischia qualcosa di proprio.

Se non avessi investito capitali nell’impresa in cui ho lavorato, sarei rimasto un bravo manager con un bellissimo stipendio, che lavorava e andava in vacanza, però restava manager, non imprenditore.

L’impresa è spesso luogo di rappresentazioni: per esempio, c’è ancora chi vede l’imprenditore come il padre padrone. Ci sono stati casi in cui è sorto questo problema nella sua attività, e come lo ha affrontato?

Questo è un pregiudizio che ci sarà sempre. Per me è forse stato più semplice perché, essendo entrato nell’impresa come imprenditore già a trent’anni, ho collaborato con giovani dipendenti, perciò avevo un rapporto con loro molto diverso da quello che poteva essere definito con un padre padrone cinquantenne all’interno di un’impresa decennale. Io ero uno di loro che si era esposto un po’ di più, perciò sono stato il primo sindacalista dell’azienda, nel senso che ero attento a capire i problemi che potevano intervenire. Non ci vuole l’università per capire cose semplici, che si capiscono sul campo, occorre lavorare come un buon padre di famiglia. L’impresa deve essere costituita da dispositivi che coinvolgono ciascuno, perché non ci siano contrapposizioni. L’azienda, come ciascuna cosa, ha un itinerario, un progetto e un programma, che occorre far capire coinvolgendo i dipendenti, ma non è facile. È possibile farlo capire solo lavorando accanto a chi collabora nell’azienda, solo così si può capire se la squadra è completa. Per trent’anni ho pranzato con dipendenti e collaboratori e così ho capito il cinquanta per cento delle cose che occorreva fare. È una filosofia un po’ nuova che i manager, soprattutto a un certo livello, non riescono a capire. Molte idee sono venute parlando con la gente che tutti i giorni lavorava con me.

In alcuni corsi per manager si oscilla tra l’invito a instaurare un rapporto armonico con i dipendenti e quello a mantenere il distacco di una posizione al vertice dell’azienda. Che cosa ne pensa?

Certamente ci sono funzioni che vanno rispettate, però si tratta anche d’integrare esperienze e compiti differenti. Chi dirige un’azienda deve avere una visione trasversale dei problemi, perché i compartimenti stagni non giovano alla riuscita.

Con il termine “funzioni” intende forse che non c’è il posto dell’imprenditore ma la funzione dell’imprenditore?

La storia di un imprenditore non finisce mai, perché ciascun giorno intervengono idee nuove che possono modificare addirittura quello che è stato fatto il giorno prima. Questo modo di operare fa parte del bagaglio culturale che l’imprenditore non vuole perdere, perciò occorre che costituisca un leader nuovo. Molte aziende vanno in crisi perché non si preoccupano di formare a questa logica e non trovano un leader che succeda a un altro. Saremmo molto felici noi imprenditori se oltre ad avere grandi università, si facessero corsi non per manager ma per “apprendisti imprenditori”. Quella dell’imprenditore è una funzione, perché mette in gioco forza, tenacia, impegno e umiltà, facendo progetti a lunga scadenza.

Alcuni ritengono che fare progetti a lunga scadenza penalizzi il cosiddetto “ritorno”. Eppure, la domanda che fa l’imprenditore nel momento in cui si intraprende il suo itinerario va oltre il ritorno, che semmai può servire come pretesto…

L’imprenditore deve avere una grande tenacia nella sua scommessa: per il progetto di Caffitaly, per esempio, i risultati stanno arrivando dopo quattro anni di investimenti, fatica e grandi difficoltà. Se non avessimo avuto fede nella riuscita, avremmo fatto crollare un progetto che invece sta decollando in modo fantastico. Nell’impresa occorrono costanza e tenacia. Sono le cose che in tanti anni di lavoro mi hanno permesso di riuscire in quello che facevo.

Come possono trarre profitto dalla crisi gli imprenditori?

La crisi è una grande opportunità per le aziende che hanno un prodotto sano e una struttura produttiva interessante. Inoltre, è proprio in un momento di crisi che un’azienda deve trovare le risorse finanziarie e impegnare ancora più mezzi per divenire protagonista sul mercato, consolidando e addirittura aumentando il proprio fatturato. E quando la crisi è passata, arriva il momento in cui progetti validi e interessanti trovano riuscita.

Lungo la trasformazione culturale avviene anche la produzione di ricchezza su un territorio. Quali sono gli apporti che un imprenditore può dare al nostro paese e come incentivare le realtà che rilanciano la logica dell’impresa?

L’impresa è sempre stata vista come qualcosa che pensa solo al profitto. La prova che questo giudizio è errato sta proprio in questo momento di crisi, in cui sul nostro territorio anche le aziende che hanno difficoltà incredibili, non hanno licenziato. Questo dimostra una grande responsabilità da parte degli imprenditori. Noi stessi, pur non avendo ricevuto sussidi o incentivi dal governo, abbiamo dato lo stipendio ai dipendenti, anche se qualcuno è stato messo in cassa integrazione.

Quindi lei crede che occorra sostenere realtà che incentivano la formazione dell’imprenditore anche perché si tratta di una questione di responsabilità?

La generazione del dopoguerra ha avuto tanta voglia di fare perché non aveva nulla. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova generazione che, purtroppo, ha sempre di più. È difficile far capire ai giovani che si può fare impresa, guadagnare, vivere bene e avere soddisfazione, impegnandosi tanto. È come se non avessero più bisogno di sognare. Constatiamo che nascono sempre meno imprenditori, ma, se vogliamo che aumentino, dobbiamo incentivare il sogno. È una questione culturale.