CAFFITALY: ESPRESSO UNICO AL MONDO

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Lei ha investito molto nel marchio made in Italy, rilevando l’antica azienda Pezziol e fondando la società di produzione di capsule col marchio Caffitaly…

Caffitaly è sinonimo di un prodotto italiano con caratteristiche particolari, perché il nostro è un espresso unico al mondo. Anche Pezziol, storica azienda fondata nel 1840 a Parma, ha nel suo marchio la bandiera italiana, che attesta l’autenticità della provenienza dei prodotti e conferisce loro un valore aggiunto inestimabile sui mercati di tutto il mondo. Tant’è che teniamo molto a evidenziare che i nostri sono prodotti italiani, non mediterranei. A questo proposito, auspichiamo che i controlli sul marchio “made in Italy” diventino sempre più serrati e non lascino spazio a confusioni che danneggiano i nostri prodotti, come accade spesso, per esempio, per l’olio extravergine di oliva, che va sul mercato con la qualificazione di “mediterraneo”. Ma dire mediterraneo e dire italiano non è proprio la stessa cosa. Nel settore delle macchine da caffè, per esempio, alcuni prodotti sono realizzati in Cina, in Romania e in altri paesi in cui la manodopera ha costi molto inferiori ai nostri. Noi, invece, abbiamo mantenuto in Italia il cuore della tecnologia e abbiamo trasferito all’estero solo l’assemblaggio, perché è impossibile delegare la progettazione, l’esperienza e lo studio del prodotto senza comprometterne la qualità. 

È stata una scelta ben precisa quella di marchiare i prodotti delle sue aziende come italiani, indicando così di puntare all’eccellenza...

La nostra è la qualità del prodotto italiano. Occorre tempo per far capire un prodotto e divulgarlo nel mondo. I nostri derivano dalla cultura italiana di un tipo di lavorazione che difficilmente si può riprodurre, perché le attrezzature o gli impianti per l’erogazione del caffè sono frutto di anni di ricerca e acquisizioni di tecnologia avanzata, che consentono di realizzare prodotti con ottime caratteristiche che vanno incontro alle richieste del cliente.

Con la Pezziol avete puntato a fare prodotti di nicchia. Perché?

Credo che il piccolo negozio specializzato, dove si possono trovare articoli particolari, in futuro avrà sempre maggior successo. Un prodotto di nicchia che entra nella grande distribuzione perde parte delle sue caratteristiche, perché è impossibile che mantenga il suo prezzo, mentre il prodotto di alta qualità dovrebbe avere un riconoscimento anche nel prezzo. Quindi, per il momento, vogliamo affermare i prodotti Pezziol sul mercato continuando a lavorare sulla qualità e, solo in un secondo momento, entreremo nella grande distribuzione, quando saranno i clienti a chiedere i nostri prodotti anche ai supermercati. Questa è la nostra politica: non possiamo fare un prodotto di qualità e rischiare di mettere in difficoltà l’azienda perché dobbiamo venderlo a un prezzo inaccettabile pur di garantirci la presenza nella grande distribuzione, come spesso accade. Il nostro è un prodotto di qualità con precise caratteristiche e il suo prezzo indica il valore del marchio e della qualità.

Il cliente che chiede il prodotto fa pensare a un ritorno alla logica della bottega...

Sia con Pezziol che con Caffitaly, il nostro miglior veicolo di promozione è il passaparola: chi acquista il nostro prodotto poi continua ad acquistarlo perché lo trova buono. Ottenere questa attenzione esige un percorso lungo e difficile, perciò occorre costanza e impegno per presidiare il mercato, che cresce tutti i giorni. Non è facile, perché questo non è il modo migliore per fare grandi volumi. Quando abbiamo incominciato l’attività di produzione delle macchine da caffè Saeco in una piccola bottega, i nostri clienti erano i negozianti e i rivenditori. La grande distribuzione è venuta dopo, quando il pubblico richiedeva il prodotto.

Quale importanza ha oggi il marchio made in Italy nel mondo? In particolare, qual è la chance di un prodotto marchiato made in Italy?

Il made in Italy ha una lunga storia, ma costellata da una miriade di contraffazioni sui mercati di tutto il mondo, perché purtroppo non sempre è tutelato come occorrerebbe, ma anche perché capita che siano gli stessi produttori italiani a non garantire la provenienza. L’olio d’oliva greco o quello spagnolo, per esempio, costano molto meno di quello italiano, ma la qualità è completamente diversa, e così il nostro pomodoro e il nostro caffè. Eppure, soprattutto all’estero, spesso non c’è alcuna tutela di questi prodotti made in Italy e addirittura vengono messe in vendita confezioni che riportano la bandiera italiana anche se sono prodotte in Cina o a Hong Kong. Per uno straniero è difficile riconoscere il prodotto italiano, se non lo ha mai provato. Allora, occorre una battaglia a livello istituzionale perché il messaggio sia chiaro e inequivocabile: occorre che il marchio “made in Italy” divenga garanzia di provenienza, quindi che i prodotti italiani siano identificabili e certificati.

Nei viaggi che lei fa spesso nei paesi in cui le sue aziende hanno una sede, che cosa ha potuto constatare a proposito del valore dell’Italia nel mondo?

L’Italia può vendere in tutto il mondo e in tutti i settori: dalla tecnologia alla meccanica, all’alimentare, all’elettronica. Ma il grande limite degli italiani è che non sanno valorizzare le proprie eccellenze. Per affermare i nostri prodotti nel mondo sono essenziali le capacità tecniche e commerciali, compresa la conoscenza della lingua e della cultura dei paesi di riferimento. Anche la scuola dovrebbe garantire ai giovani la formazione alle lingue e alle culture di altri paesi, prima dell’inserimento nel lavoro, ma anche per consentire loro di compiere viaggi culturali, anziché soltanto turistici. Un imprenditore può certamente avvalersi di un interprete, ma non è la stessa cosa, perché conversando direttamente con il proprio interlocutore si riesce a trasmettere di più e meglio, ma s’instaura anche un clima di fiducia difficilmente raggiungibile attraverso l’intermediazione di un terzo.

In che modo l’impresa in Italia dà un contributo al valore dell’Italia e alla città?

Di recente, ho tenuto una conferenza sul valore dell’impresa nel nostro territorio. Molti politici si ostinano a non capire qual è il valore dell’impresa. Eppure, il primo articolo della nostra Costituzione recita che l’Italia è “una repubblica fondata sul lavoro”. E chi crea lavoro? 

Se è vero che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e l’impresa crea lavoro, l’impresa deve essere valorizzata in modo diverso. Valorizziamo l’impresa e gli imprenditori, diamo loro lo spazio che meritano e applichiamo le sanzioni solo nei casi in cui non fanno il loro dovere. 

C’è da dire, tuttavia, che la nostra cultura del lavoro ha subito passaggi talmente forti e rapidi che non c’è stato il tempo per elaborarli: nell’arco di una sola generazione, siamo passati da un’economia agricola a una industriale. Laddove questo passaggio è avvenuto in tre o quattro generazioni, le imprese sono più solide, più preparate, meno improvvisate e anche maggiormente valorizzate. Oggi occorre attribuire un nuovo valore all’impresa e soprattutto capire che non è un danno. Non bisogna considerare l’impresa solo quando non dà risultati, per effetto, molto spesso, di una mancata valorizzazione. Questa è una questione culturale di estrema importanza – che coinvolge la formazione, il rapporto tra la scuola e l’impresa e tra l’impresa e il territorio – perché ne va della continuità del lavoro in una società. Per non parlare del cambio generazionale nelle imprese, ambito in cui gli italiani peccano di un individualismo talmente accentuato da bloccare spesso la trasmissione. È vero che nell’impresa occorre un punto di riferimento, ma occorre anche che ci sia continuità, e per garantirla gli imprenditori devono dare spazio ai giovani e formarli nei tempi giusti. 

Non si può cedere l’impresa dopo averla condotta per cinquant’anni in modo solipsistico, bisogna accompagnare il passaggio: l’integrazione tra le varie generazioni è fondamentale. L’Italia è il paese in cui le imprese muoiono e rinascono più velocemente. 

Dovremmo chiederci come mai, per esempio, molte bellissime aziende di Bologna non esistono più. Se non c’è il passaggio generazionale, l’impresa muore. Ma non è detto che debbano essere i figli degli imprenditori i destinatari del passaggio: se la seconda generazione non è in grado di gestire l’azienda, forse riuscirà la terza, ma l’impresa non deve morire. 

Siamo noi imprenditori a sbagliare il più delle volte perché vogliamo tenere le redini fino all’ultimo giorno, mentre sul calesse deve esserci sempre chi guida il cavallo e chi gli sta vicino e impara.