L'ARTE ITALIANA DELLA CUCINA

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direttore generale di Fox Bompani S.p.A.

Presto entrerà in vigore il disegno di legge “Collegato energia”, che considera reato la mancata indicazione del luogo di fabbricazione dei prodotti di marchi italiani, della cui qualità finora si rendeva garante l’imprenditore. Il marchio Bompani – che nel settore della cottura è sinonimo del miglior rapporto qualità-prezzo attraverso la ricerca e l’innovazione nel prodotto, nel design e nei servizi ai clienti di vari paesi – identifica sempre un prodotto fatto in Italia?

Noi proponiamo come made in Italy soltanto la nostra produzione. I prodotti del nostro core business – cucine a libera installazione e forni e piani da incasso – sono progettati, fabbricati e controllati da noi, il nostro marchio identifica sempre un prodotto fatto in Italia. Viceversa, non proponiamo come made in Italy eventuali articoli a completamento di gamma prodotti fuori dall’Italia. Esiste una significativa produzione di elettrodomestici nei paesi a basso costo. Per esempio, oggi, la stragrande maggioranza del piccolo elettrodomestico è di produzione cinese, di Taiwan o di altri paesi asiatici. A favore del made in Italy possiamo tuttavia dire che il prodotto che ha più successo in Italia è la macchinetta da caffè, che invece è prodotta con design e tecnologia italiani. Il prodotto italiano avrà sempre un prezzo più elevato. La differenza di prezzo è dovuta a costi di produzione, più onerosi nel nostro paese, e quindi il maggiore prezzo si giustifica solo se il prodotto italiano dà un valore aggiunto rispetto a un altro.

Quali caratteristiche contribuiscono al valore aggiunto di un prodotto italiano e ne giustificano il prezzo?

Oltre alla sicurezza e all’affidabilità – che nel caso di un prodotto come il nostro, che utilizza il gas, non sono secondarie –, un know-how diffuso legato alla filiera, il design che esprime uno stile e comunica una cultura forte, un contesto che stimola lo sviluppo continuo delle competenze specifiche sul prodotto. Un marchio che ha un valore aggiunto identifica uno stile, un know-how di azienda e di filiera, una cultura che fa sì che un prodotto continui a evolvere e vengano mantenuti elevati standard di qualità e sicurezza. Se, invece, a un’azienda non interessa dare questo tipo di contenuto o a un utente non interessa riceverlo, ma ne fa solo una questione di prezzo, è un’ostinazione assurda. Un aspetto importante è il contenuto culturale.  Occorre capire che oggi il cliente decide di acquistare prodotti che hanno altri contenuti proprio perché vengono da altre culture: chi, per esempio, deve acquistare il fornellino da tavolo per fare la cucina giapponese, preferisce quello giapponese, perché ha una serie di accorgimenti che sono stati sviluppati grazie a un contesto culturale specifico per quel tipo di cucina. Lo stesso deve valere  all’estero per il prodotto cottura italiano.

Chi come voi esporta in vari paesi, deve conoscere anche le esigenze di cottura differenti per ciascun paese…

Sicuramente. Ciascun prodotto si arricchisce per il contesto culturale a cui si rivolge. In questo senso, l’arte italiana della cucina offre molti vantaggi ai nostri prodotti: se pensiamo che, nel raggio di soli trenta chilometri, abbiamo tipi di cucina diversi per ingredienti, gusti e modi di cucinare. L’Italia è molto variegata, per cui i prodotti che vendiamo al nord sono differenti da quelli che vendiamo al centro o al sud; a parte un minimo di standardizzazione, ci sono esigenze che li fanno variare, e questo per noi significa anche l’acquisizione di un know-how specifico che fa evolvere continuamente il prodotto. Se molti elettrodomestici come frigoriferi o lavatrici oggi sono prodotti all’estero, è anche perché sono produzioni che puntano a economie di scala che non sono percorribili per il nostro prodotto, che richiede tanti piccoli accorgimenti che ne impediscono la standardizzazione: in una cucina possono cambiare i fuochi, l’abbinamento fuoco-forno, il forno può essere a gas o elettrico, e così via. In paesi come la Francia c’è stato un appiattimento causato dall’imposizione di standard da parte della grande distribuzione. Noi da questi mercati siamo usciti, come i produttori francesi dal loro stesso paese, dove non si produce più una cucina, se non quelle di elite, e ormai si vendono soltanto prodotti turchi e, fra poco, cinesi. 

Ma quali sono le iniziative del settore per l’affermazione del made in Italy sui mercati internazionali?

Purtroppo, nonostante l’esigenza di difendere il made in Italy e di far capire nei paesi in cui esportiamo la sua ricchezza di contenuti, riconosciuta e apprezzata, ovunque riusciamo a comunicarla – in Australia, in Medio Oriente, in Russia, nei paesi dell’Est –, le iniziative sono veramente poche. Di recente, abbiamo riunito un tavolo di lavoro che ha anche una presenza all’interno dell’Associazione europea di produttori di elettrodomestici, il CECED, il cui ramo italiano è associato a Confindustria. Una volta al mese c’incontriamo per discutere delle iniziative che possono promuovere il brand made in Italy nel mondo. Ma questi argomenti non trovano un grande appeal presso i grandi gruppi, che pure sono presenti, perché proporre il made in Italy va addirittura contro il loro interesse: hanno la tendenza a standardizzare il prodotto per rifornire ampie aree geografiche con l’obiettivo di raggiungere economie di scala e, per i prodotti di nicchia o con maggiore differenziazione, si rivolgono ancora a noi piccoli produttori. La conseguenza di questo scarso interesse è la mancanza di sostegno da parte delle istituzioni, per le quali noi rappresentiamo una realtà che, anche se non è marginale, non comprende la maggioranza dei produttori del settore. Eppure, almeno a livello regionale, le istituzioni dovrebbero essere più attente all’occupazione che le piccole e medie imprese garantiscono a centinaia di persone, sono aziende che danno lavoro direttamente e, indirettamente, mantengono un indotto ancora più ampio. Però lo stato preferisce incentivare l’acquisto di frigoriferi, che non danno alcun beneficio al paese o ne danno poco, perché le fabbriche italiane di frigoriferi sono state spostate all’estero. 

Ancora una volta, le istituzioni confondono l’importanza con la dimensione: nel nostro paese ci sono aziende piccole e medie, come la vostra, con un tale livello di know-how da essere un riferimento per il settore. Un’azienda di grandi dimensioni, che persegue economie di scala, in qualsiasi momento può essere spostata altrove perché il contesto culturale non è strategico per il suo business. Non capire questo vuol dire essere privi di cultura d’impresa…

Purtroppo l’Italia è anche priva di una vera e propria politica industriale, non ha individuato i settori su cui puntare: quelli strategici che non devono essere spostati all’estero. A me pare che il nostro sia un settore su cui puntare in assoluto, considerando che l’Italia ha nell’agroalimentare e nella cucina un grande asset. Non a caso Parma è sede europea dell’agroalimentare, siamo i primi produttori di cibi biologici in Europa e la nostra cucina è riconosciuta in tutto il mondo come eccellente e sana. La sinergia tra chi produce gli strumenti per cucinare e chi produce i cibi che vanno sulla tavola, con una cultura che spesso vanta tradizioni secolari, dovrebbe avere il massimo sostegno da parte delle istituzioni, perché non possiamo considerare strategiche solo le attività che incidono dal punto di vista delle dimensioni. Soprattutto nel nostro paese, che non è ricco di materie prime, dobbiamo distinguerci, più che per la quantità, per la qualità dei prodotti, frutto di arte e invenzione.