NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA?
Il Nord e il Sud, rappresentati come luoghi, sembra siano in guerra. In una mitologia germanica, soprattutto illuministico-romantica, il nord, solare e civile, è visto in opposizione al sud, oscuro e barbaro. Dove conduce questo modo di affrontare la questione? Alla guerra. Il nord e il sud, posti in relazione tra loro, escluso il terzo, l’Altro, si trovano agli opposti, nel conflitto gnostico tra il bene e il male. E la guerra diviene infinita perché ognuno dei due poli crede di incarnare il bene in lotta contro il male. Una lotta mortale e mortifera. Questa dicotomia manicheistico-hegeliana è del tutto interna al discorso occidentale. Come nota Armando Verdiglione in questo numero, non c’è Islam contro Occidente, sud contro nord, ma Islam ortodosso e Occidente industrializzato sono entrambi esponenti del discorso occidentale, o, secondo la cifrematica, del fantasma materno che “causa” il discorso occidentale. A entrambi appartiene la logica della morte eretta a principio, secondo cui le cose sono da affrontare in una prospettiva morale, e non con un approccio intellettuale. E, dunque, perché il bene trionfi sul male, occorre il gesto risolutivo, il taglio radicale. Che cosa è veramente cambiato dall’11 settembre? Nulla, se non che non si può fare a meno di ascoltare. Ascoltare quanto c’era già prima, quanto già prima era in atto, era nell’attuale. Il taglio è del tempo. Non c’è padroneggiamento del taglio da parte del soggetto, anche se c’è chi crede di poterlo fare. Le cose che esistono nella parola entrano nell’occorrenza, nell’urgenza per l’intervento del tempo. Oggi, chi può dire di non essere al corrente dell’esistenza di una questione islamica nel pianeta? Qualcosa di inascoltato c’era, se è giunto a esplodere con i raid dell’11 settembre. La violenza è del tempo. Non c’è cambiamento rispetto a una situazione in cui gli intoccabili Stati Uniti sembravano garantire la sicurezza del cosiddetto mondo occidentale. Che cosa occorreva fare prima dell’11 settembre? I politici, i diplomatici, l’opinione pubblica se lo stanno chiedendo davvero? Che cosa occorre fare dopo l’11 settembre? Può risolversi tutto con la guerra che diventa santa per entrambe le parti in causa se è fatta in nome di una superiore ragione?
Le cose sono e restano inconciliabili, non c’è armonizzazione possibile della dicotomia in una sintesi superiore. La chance è affrontarle in modo intellettuale, con la lingua diplomatica, con la politica in cui l’Altro non sia escluso, ghettizzato, soppresso. Questa guerra non è convenzionale perché non può risolversi con le bombe. Non si può delegare alle bombe l’intelligenza artificiale, l’intelligenza che viene dall’artificio, dalla manointellettuale. La politica dell’Altro, scrive Armando Verdiglione, procede dall’apertura. La politica come campo del possibile, dove tutto o niente è permesso, è la politica senza fede. Dal venir meno dei due blocchi con l’implosione del comunismo, il conflitto ideologico si è sempre più trasformato e moltiplicato nei conflitti religiosi locali. Alla politica, nel senso comune, si tende a dare sempre un fondamento: prima ideologico, ora religioso. Ma un conto è la religione, un conto è la fede che procede dall’apertura, dall’accoglimento dell’Altro. Oggi la questione essenziale è quella della civiltà, rintracciare nel discorso occidentale gli elementi che possano contribuire alla trasformazione culturale del pianeta. Questo compito si estende anche all’islamismo. Un compito arduo, per i presupposti di un credo religioso che ha sempre puntato, fin dal suo sorgere, sull’arma come mezzo di morte per la conquista, piuttosto che sull’arma della parola.