IL RESTAURO ESIGE UN DIBATTITO NUOVO
Da operatore ed estimatore del restauro, credo che occasioni come questo convegno (La materia del restauro, Bologna, 16 ottobre 2009) servano a risvegliare l’attenzione sull’argomento e a vivificare il senso civico di chi vi partecipa.
Farò alcune considerazioni a partire dal libro di Roberto Cecchi, Il restauro (Spirali), tenendo conto che il tema del restauro è molto più complesso di come sembra quando se ne parla in circostanze come questa.
Occorre innanzitutto specificare di che cosa stiamo parlando. La fotografia dei beni oggetto di tutela e di metodologie specifiche consiste in un elenco in continua progressione: all’elenco iniziale si sono aggiunti quarantamila beni ed è probabile che altri se ne aggiungano in futuro e altri, invece, vengano cancellati. Più che una fotografia, è un film in cui gli oggetti si diversificano nel corso di decine di anni.
Un altro motivo di complessità è dato dalle differenti tipologie d’intervento. Insieme ad altre aziende, abbiamo avuto il privilegio di svolgere una parte dei lavori di questa bellissima sala dell’Oratorio di San Filippo Neri. Ricordo che l’intervento di restauro, il cui merito oggi è concordemente assegnato a Pier Luigi Cervellati, all’epoca suscitò pareri discordanti, perché non c’è un modo univoco di procedere nel restauro. Questa discordanza si ritrova anche nell’approccio al tema sismico, che implica scelte articolate con cui il progettista e il restauratore devono fare i conti.
La costruzione di una rampa per i diversamente abili, all’ingresso dell’Oratorio, fu ritenuta inutile, a suo tempo, per la differente sensibilità al tema e non perché il progetto fosse sbagliato. L’adeguamento delle normative per l’abbattimento delle barriere architettoniche costituisce senza dubbio un requisito di grande civiltà, e tuttavia ha alcune conseguenze rispetto alla tutela e all’intervento di restauro.
Un ulteriore aspetto di complessità è dato dalle attuali norme di sicurezza che pongono l’accento sull’impiantistica, ovvero sulla parte più difficile da realizzare in un contesto tutelato.
Infine, c’è l’aspetto, non nuovo, della politicizzazione del restauro: talora, in base ai migliori principi civili, talaltra, in maniera strumentale, c’è chi tenta di stabilire che cosa è da tutelare, quali sono le funzioni più adeguate al singolo bene e, addirittura, quali progettisti e quali imprese devono operare rispetto a esso. Se intesi in maniera culturalmente corretta, questi sono motivo di dibattito e di crescita. Purtroppo, sappiamo bene che, invece, rischiano di diventare meccanismi di controllo del territorio con gli effetti deteriori a tutti noti. Il limite di queste considerazioni sta, però, nel fatto che le norme e le regole sono, in realtà, poca cosa rispetto alla prassi e all’amministrazione quotidiana. Nel libro Il restauro, l’intervento di Marco Cammelli è di grande interesse, laddove afferma che occorrono leggi adeguate, in quanto sono il principio fondante per intervenire nel modo giusto, però, in definitiva, è la quotidianità a rendere una legge giusta o sbagliata.
La sensibilità sul tema del restauro è scarsissima, talvolta anche tra gli stessi operatori, altre volte, invece, da un punto di vista normativo e documentale, realizzare opere di edilizia ordinaria può richiedere più carta del restauro di un prospetto seicentesco. Non voglio invocare più carta per il restauro, ma, o noi riteniamo che sia un’attività complessa e richieda specializzazioni in grado di affrontare la sua complessità, oppure, se consideriamo il restauro alla stregua di qualunque opera edilizia, rischiamo interventi malfatti. Le conseguenze incominciano a vedersi: per esempio, riguardo alle chiese o alla pulitura dei muri dai graffiti, che si effettua con una scorticatura o con un blando tinteggio.
Tutto ciò non mi scandalizza, chi lavora può commettere errori, ma trovo scandaloso che nessuno inorridisca e faccia sentire la sua voce quando accadono.
Dunque, non mancano le norme, le regole e le professionalità valenti, sia nelle soprintendenze sia tra i progettisti, ma un manufatto storico richiede una sensibilità differente rispetto alla costruzione di una villetta a schiera.
Questo non è percepito né dagli operatori né da chi fa le norme e le regole. Fino a qualche anno fa, i dibattiti, anche se più ingenui, erano più accesi. Quando restaurammo il portico rinascimentale di San Giacomo, a Bologna, avevamo una vera e propria ansia da prestazione. Oggi, la notizia che una persona posizioni un container su Palazzo d’Accursio e lo vernici di viola sarebbe riportata nelle ultime pagine dei giornali.
Non voglio invocare un rigorismo stupido, però, credo che, attualmente, il professionista preparato sia considerato alla stregua di chi si è avvicinato al tema del restauro solo l’altro ieri. È un’omogeneità dannosa, soprattutto per i beni culturali.
L’ultima considerazione riguarda l’uso del bene tutelato. Lungo via Mazzini, dopo Pontevecchio, c’è un antico portichetto in mattoni che fu profanato diventando sede di una profumeria.
All’epoca, questo scatenò molte reazioni contrarie. Oggi, farebbe sorridere, ma, al di là del fatto che, forse, lì una profumeria stava benissimo, la questione è che anche un argomento così banale generava un dibattito cittadino utile per proporre tesi e confrontarsi. Accadde lo stesso quando restaurammo la chiesa di San Mattia per farne la sede di un’aula polivalente.
Il confronto e, a volte, lo scontro di allora erano frutto di un pensiero che oggi è assente, e l’altissima percentuale di beni artistico-culturali del nostro paese viene considerata un problema, anziché una risorsa. Allora, occasioni come questo convegno sono utili per riscoprire la voglia di confrontarsi. Da qui, la mia ferma richiesta di organizzare un altro momento di dibattito, perché il nostro futuro non può prescindere dal nostro passato.