LA POLITICA DEL PIACERE

Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, direttore della cooperativa sociale "Sanitas atque Salus"

Nella mia pratica clinica, noto che la rappresentazione del disagio s’instaura sempre più spesso, soprattutto nei giovani, a partire dalla credenza nell’assenza, nella mancanza o nell’insufficienza di piacere. Per intendere quanto il piacere in occidente sia stato demonizzato nel corso dei secoli, basta leggere Il martello delle streghe, scritto alla fine del Quattrocento dai domenicani Heinric Institor Kramer e Jacob Sprenger per rendere operativa una bolla di Papa Innocenzo VIII, intitolata, non a caso, Summis desiderantes.

Il piacere e il godimento sono stati a lungo considerati un effetto dell’intervento del demonio nell’animo, nel costume e nel sentire degli umani. Le demonizzazioni del piacere sono state poi traslate in contesti differenti, anche laici, ciascuno dei quali divenuto importantissimo ai giorni nostri, come l’educazione, la formazione, l’insegnamento e la politica. Il discorso politico, dopo avere a lungo condizionato la tematica del piacere attraverso la morale pubblica, resta tuttora condizionante, ma in due direzioni, quella della trasgressione e quella della prescrizione, al seguito entrambe della politica del consenso. Oggi è soprattutto il consenso mediatico a indicare quali siano le mete da perseguire e quali quelle da considerare riprovevoli, sotto l’egida di una nozione di salute non disgiunta da quella del profitto, della moda o del “politicamente corretto”. Il piacere come emergenza di qualcosa di assoluto, d’incontrovertibile, viceversa, è stato quasi sempre considerato con sospetto dal discorso occidentale. Prima della psicanalisi e della cifrematica, l’argomento era tabù, demandato alla religione, alle dottrine politiche e alla morale. L’elaborazione compiuta dalla psicanalisi e, negli ultimi trent’anni, dalla cifrematica, verte invece intorno al piacere come approdo, per ciascuno.

Sigmund Freud, nonostante l’assonanza del proprio cognome con Freude, che in tedesco significa “piacere” nell’accezione di “gioia”, per parlarne scelse il significante Lust, che in tedesco indica anche “voglia”, comunemente voglia di qualcosa. Non s’instaura vero piacere senza l’oggetto della parola, ma il Lustprinzip, il principio freudiano di piacere, l’oggetto ritiene di conoscerlo. Il piacere invece è l’approdo alla qualità della vita. Esige certo l’oggetto, ma è l’oggetto della parola, che non può essere gestito, condizionato, padroneggiato. La fantasmatica intorno al piacere riguarda ciascuno, ma diviene anche fantasmatica sociale, che esige l’analisi dell’epoca.

L’avventura del colonialismo, secondo gli storici moderni, ha riguardato esclusivamente l’occidente, quindi va distinta dagli imperialismi, propri invece a tutte le civiltà. A determinare il colonialismo, oltre all’idea di viaggio e alle scoperte scientifiche, compresa la cartografia, introdotte dal rinascimento, e oltre alle ragioni economiche, sono stati gli eccessi bellicistici e quelli moralistici della Riforma e della Controriforma, espressione di due modi differenti d’intendere la padronanza sul piacere, quella estremista protestante e quella estremista cattolica. Soprattutto dopo la Guerra dei Trent’anni, il più sanguinoso e devastante conflitto europeo prima delle guerre mondiali, gli europei hanno dubitato che la loro terra potesse dare frutti, materiali e intellettuali, in grado di provocare, di evocare o di sostenere con tranquillità il piacere. Senza dimenticare la tragedia di tanti popoli, in particolare dell’America, a seguito dell’avventura coloniale – popoli cui dobbiamo gratitudine perenne per i frutti che ci hanno saputo dare –, occorre ricordare la funzione insostituibile del colonialismo nell’attenuazione delle tensioni religiose e sociali in Europa e, per molti, nella costruzione di nuove modalità di vita. Oriente e America divennero, oltre che terre di conquista e di ricchezze, terre di peccato, ma di quello che si poteva addomesticare e, una volta regolamentato, introdurre e diffondere. Pensiamo ai monaci spagnoli che prima considerarono il cioccolato sostanza del diavolo e poi, nei conventi, iniziarono a elaborarlo e a commercializzarlo. Il successo di cibi come il the, il caffè, il pomodoro, lo stesso cioccolato, per il loro gusto oltre che per il loro valore nutrizionale, è stato determinato anche dall’accesso a un piacere sempre meno condizionato, o condizionato solo in parte, dalla morale e dalla religione: pensiamo alle calviniste Olanda e Svizzera, da secoli le maggiori produttrici e consumatrici di cioccolato. Un piacere che, con il miglioramento delle condizioni economiche, è stato esteso a ciascuna classe sociale e ha accompagnato, anche storicamente, lo sviluppo dell’idea stessa di democrazia.

Cioccolato e piacere (Spirali), a cura di Giuseppe Nisticò, è un libro di grande argomentazione medica e scientifica, che tuttavia porta a importanti riflessioni di carattere più generale. È soprattutto un libro di grande apertura, che ci riporta al sogno verso le cosiddette terre coloniali e ai suoi prodotti come metafora, ma ci fa anche riflettere sull’attuale, sul rapporto tra piacere e potere e tra educazione e piacere, come educazione al gusto e all’alimentazione. E l’alimentazione qui risulta un vero e proprio viaggio intellettuale.