LA CINA, L'ITALIA: CONTRATTI DI RETE TRA CERVELLI E IMPRESE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Durante il suo recente viaggio a Shangai, quali impressioni ha tratto dal confronto fra due paesi, per quanto così distanti e differenti fra loro, come l’Italia e la Cina, e che cosa può dirci della percezione che gli imprenditori cinesi hanno dell’Italia e dell’Europa?
È difficile generalizzare. Così come non esiste un pensiero unico da parte degli imprenditori italiani, non esiste il pensiero unico di quelli cinesi. Volendo azzardare: la percezione che gli imprenditori cinesi hanno dell’Italia è molto sfocata. È una piccola regione che fa parte di un insieme (l’Europa), caratterizzata da elementi quali il buon gusto, i prodotti di lusso e una storia “quasi” paragonabile alla loro per antichità. Ma la storia non ha una grande importanza per gli attuali businessman cinesi.
L’Europa nel suo insieme è visto come un piccolo mercato di sbocco, ricco, ma con scarse prospettive di sviluppo. Un mercato di approvvigionamento di tecnologie in concorrenza con il Giappone e gli Stati Uniti. L’approccio è spietato: nessun senso di inferiorità, qualche senso di superiorità dato da una differente lettura della situazione mondiale (per loro il mercato è in crescita, anzi c’è la paura di rottura di bolle finanziarie e immobiliari) e dalla percezione di essere in rimonta rispetto a concorrenti praticamente fermi. Sanno che il centro del mondo si è spostato a oriente e sfruttano la situazione.
TEC Eurolab negli ultimi anni ha seguito una logica di espansione che l’ha portata all’acquisizione di una quota importante di altri due laboratori, Labmet (a Maniago, in provincia di Pordenone) e Alpilab (a Buttigliera Alta, in provincia di Torino).
Lei pensa che stia diventando sempre più indispensabile per le PMI costituire reti d’imprese e instaurare alleanze per affrontare con maggiore forza il mercato, come ormai si auspica da diversi anni? Esistono difficoltà che rallentano il ricorso a questi strumenti da parte di imprese della nostra provincia, da che cosa derivano e come si potrebbero superare?
Le dimensioni dell’impresa, in rapporto con il suo mercato, sono essenziali. Penso che molte delle imprese che caratterizzano il nostro territorio, e mi riferisco soprattutto a quelle che sono a cavallo tra la piccola e la media impresa, quindi con 40-80 dipendenti, si trovino in una situazione particolare. Sono già sufficientemente grandi da patire tutte le disgrazie delle grandi, compresa una certa perdita di flessibilità dovuta agli aumentati costi di struttura, ma ancora troppo piccole per poter godere dei vantaggi dell’essere grandi e quindi ancora in seria difficoltà sui processi di sviluppo dei mercati, in difficoltà nell’affrancarsi dalla dipendenza di clienti che detengono quote significative del fatturato, in difficoltà nei processi di internazionalizzazione.
Per questo ritengo che i processi di aggregazione potrebbero essere importanti. Certo ci si scontra con quello che per decenni è stato il punto di forza del “modello Emilia”, cioè la grande vocazione imprenditoriale della nostra gente. Quante aziende sono nate e nascono da un individuo o da due soci che decidono che “vogliono fare a modo loro”. Tuttavia, la positività di questo stile nasconde un grande individualismo al quale l’imprenditore non vuole rinunciare: da qui l’enorme difficoltà nell’aggregare le imprese. Davanti alla possibilità di dividersi una torta più grande, che è possibile conquistare solo mettendosi insieme, ci perdiamo nella discussione di come saranno suddivise le fette della torta… e intanto la torta la mangiano i più grandi.
Come superare questo? I contratti di rete possono essere una soluzione ma sono poco conosciuti, e diffidenza e individualismo sono difficili da superare. Queste tra l’altro sono le ragioni che ci hanno spinto a cercare una crescita per linee esterne, per occupare aree maggiori di mercato, che restano tuttavia da sviluppare, per razionalizzare i costi di struttura, per raggiungere una dimensione che ci consenta di affrontare anche un auspicato processo d’internazionalizzazione. Ma serve tempo, bisognerebbe essere più rapidi. Fare rete sarebbe molto utile.
In seguito alla crisi, una delle maggiori preoccupazioni della società civile e dei rappresentanti sindacali è stata la salvaguardia dell’occupazione. Ma quanti sono coloro che fanno appello alle istituzioni per una politica industriale che possa favorire la creazione di nuovi mestieri in quei settori dove il nostro paese ha le maggiori risorse, come per esempio i beni culturali? E dire “beni culturali” non significa soltanto turismo, ma anche edilizia, arte, architettura, design, oltre alle famose quattro A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredamento, apparecchiature industriali)...
Quando parliamo di lavoro ho in mente due temi: il primo è la produttività, il secondo è la valorizzazione del capitale intellettuale. Mi pare che da più parti si stia evidenziando come, in un mondo che diventa sempre più competitivo, il nostro sistema produttivo stia perdendo produttività: cresciamo meno degli altri e siamo meno produttivi, la miscela è esplosiva. Essere meno competitivi vuol dire poi avere meno posti di lavoro da offrire, e avere anche minori possibilità di retribuzione per i posti di lavoro che si offrono. In ultima analisi, un peggioramento delle condizioni di vita. Se non riusciremo a invertire la tendenza, dovremo rassegnarci a vedere diminuire il tenore di vita della popolazione, magari con una forbice sociale che si apre sempre di più, portando alla sparizione del ceto medio. Un disastro.

Per scongiurare questo pericolo, dobbiamo valorizzare al meglio tutte le nostre risorse, e la nostra risorsa primaria è il capitale intellettuale. Le aziende devono cercare di valorizzarlo al meglio ma, ancor prima, sono le persone che devono capire che la prima valorizzazione del proprio cervello spetta all’individuo: per questo, bisogna aprirsi, dialogare, fornire contributi al miglioramento, fare rete con gli altri cervelli dell’impresa e della società.