LA NOVITÀ ASSOLUTA VIENE DALL’ASCOLTO

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Qualifiche dell'autore: 
Brainworker, scienziato della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

Come si scrive la storia? Chi la scrive? E con quali strumenti? Ce lo racconta Paolo Pillitteri nel suo bel libro, pubblicato da Spirali, Non è vero ma ci credo. Immagini, simulacri e inganni, in cui illustra casi eclatanti di manipolazioni fotografiche e cinematografiche, talora note, spesso mai raccontate, ma sempre talmente false da sembrare vere e entrare nei libri di scuola. Come, per esempio, la foto simbolo della rivoluzione d’ottobre, l’Assalto al Palazzo d’Inverno nel 1917 o la foto sulla breccia di Porta Pia, fino alla propaganda cinematografica del ventennio fascista e prim’ancora quella dei filmati di Stalin e Lenin, esperto nell’arte della “smaterializzazione” dei suoi amici e oppositori prima in foto e poi nella realtà. Per concludere con la recente cinematografia, che ha offerto letture ideologiche come il film Il divo di Paolo Sorrentino o come la fiction sulla figura di Enrico Mattei. Per non parlare dell’iconografia su Aldo Moro, che trova conferma in un falso storico perfino a Maglie, la sua città: qui Moro, in una scultura, è ritratto con una copia dell’“Unità” sotto il braccio.
Con questo libro, il contributo di Paolo Pillitteri non sta soltanto nel raccontare la verità storica degli eventi che hanno accompagnato l’Italia negli ultimi cinquant’anni, ma anche nella lealtà intellettuale con cui interroga la comunicazione cinematografica. Pillitteri distingue accuratamente tra la manipolazione artistica, che nell’opera è strutturale, e la manipolazione ideologica, tutt’altro che interessante.
Attento sin da giovanissimo alla comunicazione, Paolo Pillitteri consegna al lettore un testo con la leggerezza della scrittura del giornalista autentico, che non cerca la verità nel senso comune e nell’ontologia, né nel probabile e nel dimostrabile. Già dalla fine del ventesimo secolo, la democrazia del politically correct è talmente corretta da operare vere e proprie correzioni, quando non sono epurazioni, ideologiche. Correzioni o manipolazioni?
Se il ventesimo secolo passa alla storia come quello delle dittature che hanno negato la libertà di espressione e di stampa, il ventunesimo sembra consegnarci il trionfo delle libertà. Ma di quali libertà si tratta? Troppo spesso è la libertà d’infangare, di esporre al pubblico ludibrio, fino alla messa all’angolo delle voci fuori dal coro, in modo che sia fatta giustizia: ovvero che il condannato mediaticamente, prima che giudizialmente, sconti la sua pena nel silenzio. Nell’assordante panorama mediatico assistiamo, quindi, a un nuovo regime, che mira a abolire la differenza e la varietà, segnatamente di pensiero, per esempio, negando o manipolando il dibattito, la riflessione critica e, peggio, demonizzando chi avvia un’impresa. “È praticamente impossibile trovare in un film italiano del dopoguerra il ritratto del ricco italiano che non sia, al tempo stesso, corrotto, corruttore, grande evasore, palazzinaro e pure faccendiere”, nota Pillitteri a proposito di un film di Dino Risi. Come non rilevare che nella cinematografia italiana, in particolare, non c’è un solo film in cui sia valorizzata la figura dell’imprenditore, costantemente descritto come se il suo operare fosse finalizzato esclusivamente a un personale tornaconto. Trascurando che il profitto delle imprese nulla toglie, ma semmai aggiunge, al profitto della città, che poggia sulla varietà e sulla differenza. Non la differenza tra soggetti o dei sessi, ma la differenza che viene dalla struttura della parola originaria, della parola libera, che non cerca coperture.
Perché scommettere sulla parola in un mondo in cui regna l’egemonia dell’immagine? Niente di più falso della credenza che investire nella visibilità comporti investire nell’immagine. L’immagine non è la visibilità. Visibile è ciò che è fisso, che esclude la novità perché non tiene conto della constatazione che le cose procedono dall’apertura originaria, dal due originario. Dall’apertura originaria procede il dispositivo di accoglienza, che instaura l’ascolto: dove le cose s’intendono, quindi si scrivono, giungono a riuscita.
Il bello dell’immagine è che è semovente e altra, mai fissa, mai chiusa. L’inganno è costitutivo dell’immagine proprio perché semovente e non univoca. L’immagine diviene acustica, si ode, quando provoca, questiona, quando cioè c’è parola. Nell’epoca della comunicazione diretta è prassi omettere la provocazione, la scommessa. Ma dove sta l’incontro se è evitata la scommessa? Come giungere alla vendita se l’immagine è sorda? La lezione della pubblicità, che scommette non sulla fine del tempo, ma sull’infinito dell’impresa, si enuncia sempre per una scommessa sull’intelligenza che poggia sull’ascolto non sul luogo comune, sulla sordità.
La memoria e il racconto consentono che le cose che si affrontano nella parola trovino una piega perché la complessità, propria del fare, risulti occasione per nuove combinazioni, per l’invenzione di nuovi dispositivi. Se l’ascolto è negato, invece, le cose sono fisse, prese nella complicazione. L’impresa che fa le previsioni, che procede dalla visione anziché dall’ascolto, chiude. La visione si fonda sull’idea che le cose siano stabili, elude quindi l’audacia e il rischio costitutivi di ciascuna impresa che si attiene alla logica particolare.
Scommettere sulla parola, sul ragionamento, che non è la dimostrazione o la visione, e procede per astrazione, comporta che la scommessa non sia sull’alternativa, sulla fine del tempo. La scommessa della complessità: non c’è alternativa alla riuscita. Pertanto, sponsor è chi coglie l’occasione per divenire interlocutore di una scommessa giungendo alla cifra della sua impresa, al valore assoluto.

**Il testo di Caterina Giannelli è tratto dal suo intervento al convegno dal titolo Non è vero ma ci credo. Quando il cinema e i media manipolano la nostra storia(Bologna, 29 aprile 2010)