LE RAGIONI DI VITA

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Avere le proprie ragioni”, “farsene una ragione”, “non sentir ragioni”: queste e altre locuzioni correnti presentano la ragione in una versione personale, soggettiva, sottoposta all’idea di padronanza. È la ragione subordinata alla facoltà, al controllo: ragione sociale, umana, politica. La ragionevolezza. “Ho bisogno di ragioni, per sottomettere la mia ragione” (Jean-Jacques Rousseau). E tutte le ragioni sono buone perché ognuno si limiti, deleghi, si rassegni, fino alla giustificazione suprema, la ragione di stato.

Il pretesto più frequente, addotto per non pensare, per non fare, per non riuscire, sono le ragioni di salute. Ma quelle che in questo caso vengono chiamate ragioni di salute sono in effetti ragioni di malattia: per ragioni di malattia ognuno si consente e si permette di farsi soggetto della distrazione, di abitare l’intervallo, d’installarsi nell’altrove. Rilassarsi, prendere una pausa, staccare la spina: ne risulta una sospensione della ragione per ragioni di malattia, con qualche colpo di testa, fino a perdere la testa. Anche quello che viene chiamato controllo della salute, come quando si dice “andiamo a fare i controlli”, è inteso come controllo della malattia, come sua gestione. In modo più preciso, l’ideologia del controllo introduce la malattia nell’esperienza, presuppone un’esperienza sull’esperienza, che la patologizza e la mortifica, perché la sostantifica.

Talora vengono addotte, per non fare, ragioni di tempo: “Ci vuole un tempo ragionevole”. Il tempo ragionevole è l’assenza di tempo, nega il tempo della parola, il tempo del fare, l’occorrenza. Le cose si fanno secondo l’occorrenza: questa è la ragione del fare, senza ragionevolezza. Altra cosa dalla ragionevolezza è la prudenza, virtù pragmatica, prerogativa del rischio. Le ragioni della prudenza non sono ragionevoli, né sono le ragioni del cuore: sono ragioni pragmatiche, essenziali all’intendimento.

Mentre le ragioni di malattia servono a perdere tempo, sono senza il tempo, le ragioni di salute poggiano sulle ragioni del fare, le ragioni dell’arte e dell’invenzione, le ragioni dell’impresa. La salute che non dipenda dalle ragioni di malattia non risponde alla domanda “Come stai?”, che trae la risposta nella dicotomia bene/male. La salute non è lo stare bene, il benessere, e le ragioni di salute non sono le ragioni del benessere. Ontologico, il benessere sospende idealmente il tempo, il fare, la scrittura, fino a considerarli disturbi. Ma, proprio il tentativo di abolire il tempo comporta contrappassi e contropiedi chiamati malattie. E, troppo spesso, a questi contrattempi vengono opposti rimedi, naturalistici o spiritualistici, che sono nella stessa ideologia contro il tempo che li aveva provocati. In una circolarità in cui l’abolizione del tempo comporta l’assenza di cura.

Con la cifrematica, scienza della parola, la salute non è lo stato di benessere, ma l’istanza di qualità. Per questo non ci chiediamo quale sia lo stato di salute, ma quale sia il dispositivo della salute come dispositivo di qualità della vita. Niente salute senza il fare. Per ragioni di salute, ciascuno approda nella parola alla qualità, ricercando e facendo, nella difficoltà e nella semplicità. Le idee operano alla riuscita. Il dispositivo della salute non è già dato, occorre provare, ragionare, udire, ascoltare: con la parola, nulla è scontato, nelle relazioni, nelle funzioni, nelle operazioni, nelle dimensioni, nei punti di ciascuna giornata del nostro viaggio. Nonostante le rappresentazioni del disagio e della crisi.

Per ragioni di salute è il titolo del libro di Fabiola Giancotti a proposito di san Carlo Borromeo, discusso a Bologna in un convegno dal titolo Bologna, san Carlo Borromeo e la modernità, i cui atti sono pubblicati in questo numero. Nessuna agiografia, ma la restituzione del testo di questo intellettuale, imprenditore e politico del XVI secolo, esente dall’ideologia moralistica e inquisitoria dell’epoca. Dinanzi alla peste, Carlo Borromeo non si abbandona al fatalismo tipico dell’epoca, ma inventa, con spirito costruttivo, dispositivi organizzativi, nutrizionali, sanitari. Per questa via, la via della parola di Carlo Borromeo, Milano non si paralizza, ma diviene cantiere e officina, ospedale e fabbrica: la peste non è più pestilenziale, diventa occasione per la trasformazione.

C’è chi ha inteso l’attuale crisi internazionale come una pestilenza, e ne ha fatto pretesto per cedere sull’essenziale, per buttarsi o ritrarsi, per abbandonare o abbandonarsi. Diversamente da san Carlo, ha creduto alle ragioni di malattia, mortifere e mortificanti, anziché cogliere le ragioni di salute, che poggiano sullo spirito costruttivo, sull’operare delle idee nella parola come fede nella riuscita. Mai come oggi, occorrono, per vivere, dispositivi di parola, ovvero alimentari, organizzativi, imprenditoriali, finanziari, senza più paura della riuscita. La peste e la crisi non sono malattie, esigono che ci si attenga all’essenziale, all’ordine delle cose, rendono vani le scorciatoie e la via facile, il vivacchiare e il tirare a campare. La crisi non si oppone alle ragioni di salute, anche se scompagina le proprie ragioni, appannaggio del soggetto: la crisi è l’intervento dell’altro tempo, del contingente, dell’occorrenza, senza cui non ci sarebbe la cura, ma l’occupazione e la preoccupazione. Le ragioni della crisi, ragioni temporali e non soggettive, ragioni dell’Altro e non di stato, contribuiscono alle ragioni della salute come istanza di qualità della vita, perché costruiscono la strada con cui la vita diviene valore assoluto.