NULLA ACCADE SENZA L’INTELLIGENZA

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Nel 2010, TEC Eurolab ha compiuto vent’anni, vissuti sempre con grande attenzione non solo alla ricerca e all’innovazione – per mantenere l’eccellenza richiesta da clienti importanti nel mondo, in particolare nei settori aeronautico, automotive, energetico e biomedicale –, ma anche al capitale intellettuale, che è divenuto parte imprescindibile del vostro attivo in bilancio e della salute dell'impresa…
Anche se c’è ancora molto lavoro da fare prima che le piccole e medie aziende del nostro territorio arrivino a programmare azioni di valorizzazione del capitale intellettuale, la consapevolezza del valore che hanno i talenti e la formazione per il conto economico dell’azienda sta crescendo negli ultimi anni. Tuttavia, ancora per molti imprenditori, il concetto di capitale intellettuale resta limitato al patrimonio di competenze e di conoscenze tecniche indispensabili ai collaboratori per svolgere nel modo migliore la loro funzione. Vengono lasciati in secondo piano, invece, tutti quegli aspetti del capitale che fanno parte della vita dei collaboratori oltre l’azienda, dei loro interessi, della loro capacità di risolvere problemi e conciliare diverse esigenze organizzative.
L’automazione non è servita, come speravano alcuni e temevano altri, a sostituire gli uomini con le macchine, anzi, ha dimostrato che la produzione non è automatica, nulla accade senza l’intelligenza umana e le aziende sono tanto più vincenti quanto più si basano sul capitale intellettuale. Eppure, stenta ancora a decollare lo sforzo di imprenditori e staff dirigente per la “manutenzione” di questo capitale, lo sforzo per capire quando qualcosa non funziona per un collaboratore: nessuno vuole parlare con le persone – è un impegno scomodo, che richiede tempo e interessamento –, analizzare se c’è stato un errore, sottolineare un processo ben riuscito, domandare cosa turba una persona. È difficile e non va nella direzione comunemente ritenuta prioritaria, secondo cui in azienda occorre solo lavorare e produrre. Dobbiamo ammettere, però, che gli atteggiamenti demotivanti nei confronti delle persone – frequenti e spesso involontari – hanno pesanti ricadute sulla qualità del prodotto e della vita, sia all’interno sia all’esterno dell’impresa. Faccio un esempio: nella nostra azienda, competenza e know-how sono fondamentali, quindi occorre che i dipendenti più esperti trasmettano le loro conoscenze ai più giovani; può accadere che, in un momento in cui siamo oberati di lavoro, passando davanti a un macchinario, io noti due persone che discutono di un argomento che a me pare poco importante e lo faccia presente: se uno dei due dipendenti si allontana per andare a svolgere un altro lavoro, allora, in quel momento ho distrutto gli stimoli di quei ragazzi, ho demolito l’opera d’insegnamento in corso e lo spirito d’impresa dei collaboratori, ho mandato in frantumi un bicchiere che sarà davvero complicato ricomporre. In un’azienda come la nostra, dove si conoscono tutti, e si conoscono anche alcuni particolari della vita di ciascuno dei sessanta collaboratori, è il titolare dell’azienda che deve avere a cuore lo sviluppo della cultura d’impresa, parlando con i collaboratori, dedicando almeno un’ora a trimestre a ciascuno, singolarmente. Per capire quanto si estende la condivisione del valore d’impresa, quanto l’azienda sta facendo per lui e quanto si aspetta che lui faccia per l’azienda, non bastano le assemblee generali, occorrono colloqui in cui emergano problemi, esigenze pratiche e culturali. Se il titolare non riesce a contribuire in questo senso, non può aspettarsi che una persona sia serena e disposta a collaborare alla risoluzione di un problema dell’azienda, o meglio del cliente.
Sono questioni essenziali, soprattutto per un imprenditore come lei, per il quale il business coincide con il suo progetto e programma di vita…
A volte mi sento come un artista, che ha la libertà di organizzare come dipingere; la libertà è una delle cose che maggiormente apprezzo nel fare l’imprenditore rispetto ai vantaggi economici che porta, che sono altalenanti in funzione dei momenti. Ma se la libertà è così per l’imprenditore, perché non dovrebbe esserlo per ciascuno dei collaboratori? Perché dovremmo pensare che la vita dei nostri collaboratori cominci fuori dell’azienda? Se così fosse, la maggior parte delle ventiquattr’ore giornaliere equivarrebbe per loro a essere morti.
Possiamo dire che, diversamente da quanto si crede, quando si affida a un manager la direzione di un’azienda, il cervello dell’impresa non è delegabile?
Il titolare dell’impresa può e deve delegare molte attività, quasi tutte, mantenendone il controllo, ma non può delegare la cultura della propria impresa. Non si può pensare che un amministratore delegato conosca la storia dell’azienda e delle persone che la compongono. Non a caso le statistiche riportano che il 40 per cento degli amministratori delegati abbandonano o vengono costretti ad abbandonare entro i primi diciotto mesi dall’assunzione. Seguendo logiche di brevissimo periodo, possiamo implementare una nuova procedura, modificare un ciclo di produzione, installare un nuovo macchinario, misurando i cambiamenti in ore, giorni e mesi, ma come si può misurare il cambiamento culturale di una persona? Per questo serve una vita, mesi e anni di convivenza e di condivisione degli obiettivi. Tutto ciò, naturalmente, contrasta con l’odierna visione del ciclo economico dell’impresa, sempre più limitato al breve medio termine e molto distante da un’ottica di cultura d’impresa che si sviluppa proiettando l’azienda nel tempo.
Considerando che in un’azienda gli uomini passano ma la sua cultura resta, dobbiamo riconoscere che anche il titolare passa, nel senso che può cedere l’impresa, oppure passare il testimone nel ricambio generazionale, ma se ha contribuito a costruire una cultura all’interno dell’impresa, che la distingue anche all’esterno, questa riuscirà a influenzare anche chi l’acquisisce.