IL TEMPO DELLA SCRITTURA

Qualifiche dell'autore: 
docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna

Soltanto un autore che, come Thomas Szasz, ha raggiunto un notevole distacco rispetto alla disciplina psichiatrica e al dibattito sui gender studies poteva scrivere La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf (Spirali), in cui non deve difendere alcuna posizione accademica né dimostrare una tesi, al punto che può permettersi anche alcune contraddizioni. Per esempio, Szasz nota che, nonostante la casa editrice di Leonard e Virginia Woolf, la Hogarth Press, pubblicasse la traduzione di tutte le opere di Freud e nei diari della scrittrice si trovino continui riferimenti alla revisione delle bozze, che fanno presumere la sua conoscenza della psicanalisi, la Woolfsi è disinteressata della psicanalisi e ha preferito ricorrere alla psichiatria.

Szasz conclude prospettando un possibile miglioramento dei suoi disturbi se si fosse sottoposta a una cura psicologica – il fratello tra l’altro era psicologo –, ma poi si contraddice, sostenendo che ha fatto bene a evitarla perché non le sarebbe servita. È un problema che rimane in sospeso, come il tema centrale nella ricezione della Woolf che è connesso con il rapporto fra genio creativo e follia.

È noto che Virginia Woolf, insieme a James Joyce, ha trasformato il romanzo inglese del Novecento – e a seguire anche quello mondiale – anche attraverso l’utilizzo dello stream of consciousness, del flusso di coscienza, anche se in una forma autonoma rispetto alle scoperte di Freud e con scelte letterarie meno radicali rispetto a Joyce, dal momento che mantiene aperto un contatto con il lettore, quasi un patto: se il lettore non capisce qualcosa in un romanzo di Virginia Woolf, presto o tardi gli verrà spiegato. Mrs. Dalloway ha un inizio bellissimo: “La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei. Lucy ne aveva fin che ne voleva, del lavoro”. Viene nominata una persona e il lettore non sa di chi si stia parlando: si capirà in seguito che si tratta della domestica perché è l’autrice stessa a non nasconderlo, a differenza di quanto avrebbe probabilmente fatto Joyce.

Elemento centrale nella narrativa dell’autrice è il tempo: tipico del romanzo del primo Novecento è il problema di come “rendere” il tempo. Nell’Ottocento, in classici come David Copperfield, il romanzo iniziava con il protagonista bambino o non ancora nato e si concludeva dopo 1000-1500 pagine quando aveva raggiunto un traguardo, in una struttura che era quella del cosiddetto romanzo di formazione. Joyce e Virginia Woolf narrano tutta la storia in un giorno e, nonostante sostanziali differenze fra i due autori, il tempo è molto importante per entrambi. In Mrs. Dalloway i personaggi hanno la dimensione del ricordo e per tutti loro nell’arco del romanzo è evidente un passaggio dal mondo esteriore al mondo interiore, dal modo in cui loro vengono visti dagli altri alla percezione che hanno di sé nei loro pensieri, in un continuo slittamento dall’esterno all’interno, con esiti estremamente interessanti.

Per esempio, sentendo ragionare il personaggio di Peter Walsh, spasimante di Clarissa Dalloway che torna a Londra dopo trent’anni, potremmo pensare che sia un ragazzino perché camminando per il parco guarda le ragazze e riflette sulla storia d’amore che ha con una donna indiana; dopo poche decine di pagine, Peter va a trovare Clarissa e la domestica aprendo la porta annuncia: “C’è di là un signore di mezza età che vuole parlare con lei”; infatti Peter ha la stessa età di Clarissa, circa cinquant’anni, ma solo in quel momento ci accorgiamo di esserci fatti un’immagine sbagliata del personaggio basandoci sulla sua percezione di se stesso. In questo modo, Virginia Woolf ha descritto come Peter Walsh vede se stesso e come, invece, egli è davvero: questo slittamento fra esterno e interno è presente in tutti i personaggi, a eccezione di quello dello psichiatra che, oltretutto, è fissato con gli orologi che continua a sistemare e caricare. In Mrs. Dalloway ci sono sempre due tempi: quello interiore – quello importante, che comprende il ricordo e non riguarda solo il momento presente, ma anche il passato e, nel finale, anche il futuro – e quello esteriore, segnato dal Big Ben, che suona continuamente nel corso del romanzo per scandire le ore ed “emana nell’aria cerchi di piombo”: è un tempo pesante, condiviso, quello dell’orologio e non è un bel tempo; il tempo importante per tutti i personaggi è quello interiore e, guarda caso, lo psichiatra è fissato con il tempo dell’orologio.

Ma, tornando al tema del genio e della follia, Mrs. Dalloway, come la stessa Virginia Woolf, non piace fino in fondo agli studenti perché delude quel lettore che, supponendo che la scrittrice sia geniale e folle insieme, si aspetta qualcosa di stupefacente, mentre poi trova nei romanzi una densità impressionante, ma anche una notevole gravità. Mrs. Dalloway è un romanzo difficile, privo di quel fascino della follia che lo studente spera di trovare, quell’identificazione su cui Thomas Szasz scrive pagine notevoli, ragionando su quelle convinzioni che ciascuno si crea e si demolisce quasi senza pensarci.

Harold Bloom, a proposito di Wallace Stevens scrive che era il poeta più grande del Novecento, ma anche un uomo molto noioso. E raccontando di aver pranzato con lui quando era studente e di essersi annoiato tremendamente, consiglia di non cercare mai di conoscere i propri autori preferiti perché si subiscono delusioni terribili.

A quanto pare, come nota Thomas Szasz sul tema genio e follia, si può essere geni ed essere folli, si può essere geni e non essere folli, si può essere folli e non essere geni. Eppure, nel nostro immaginario rimane l’idea che il rapporto fra genio e follia sia inscindibile e crediamo, quasi come trasportati dalla forza delle parole, che il genio si nutra di follia e la follia di genio. È possibile invece che non sia affatto così.