IN ASCOLTO DELLA PAROLA DI VIRGINIA WOOLF

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docente di Semiotica all’Università di Bari

Tradurre il libro di Thomas Szasz, La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf (Spirali), è stata un’esperienza bella e impegnativa. Quando ho letto nell’originale quest’opera mi sono subito resa conto del suo valore e dell’importanza della sua traduzione.

Ho conosciuto Thomas Szasz nel novembre del 2003, in occasione del congresso internazionale Medicina e humanitas dell’Università del secondo rinascimento, organizzato nella villa san Carlo Borromeo (Senago, Milano) da Armando Verdiglione e Cristina Frua De Angeli. Szasz lesse in quell’occasione la relazione “Perché ho scritto Il mito della malattia mentale”. Mi colpì subito l’atteggiamento di grande umiltà e la disposizione all’ascolto che caratterizzano questa persona, che è ormai uno degli autori più noti del ‘900, soprattutto per il suo libro del 1961, che, insieme a diversi altri libri che in quest’ultimo decennio Szasz ha continuato a produrre, è stato pubblicato anch’esso da Spirali nel 2003 nella nuova edizione italiana.

I suoi interessi specifici l’hanno condotto a occuparsi anche di questioni inerenti i segni, il linguaggio e la comunicazione. Ecco perché ha accettato molto volentieri l’invito da parte mia e di Augusto Ponzio a tenere un seminario dedicato al rapporto tra soggettività, linguaggio e corpo, per i nostri corsi di semiotica e filosofia del linguaggio e per il Dottorato in teoria del linguaggio e scienze dei segni all’Università di Bari.

La problematizzazione del linguaggio, considerato nella sua stretta relazione con il corpo, con l’ideologia e con gli stereotipi della “malattia mentale”, è una costante nella scrittura di Szasz, dove nulla è dato per scontato. Ne è espressione proprio La mia follia mi ha salvato, dove l’analisi del linguaggio, relativamente sia al discorso dominante sia alla scrittura letteraria e all’epistolario di Virginia Woolf, svolge un ruolo centrale. Szasz si propone fondamentalmente di liberare la scrittrice dai luoghi comuni che la riducono a vittima della malattia mentale.

È questo un libro di profonda e documentata riflessione, dedicato all’analisi di problemi relativi alla vita e alla morte, alla relazione interpersonale; ed è un libro fortemente dialogico, dedito a prendere in considerazione il punto di vista altrui impegnandosi in un vero e proprio dialogo, in cui anche il lettore si trova coinvolto. Si tratta infatti di un’opera che, come diceva il suo stesso Autore annunciandone la pubblicazione, è per metà un’opera letteraria e per metà un’illustrazione, un’esemplificazione, attraverso il “caso Virginia Woolf”, dell’idea che la cosiddetta malattia non è una malattia, ma una particolare modalità secondo cui sono vissute e assunte le relazioni interpersonali e sociali. Essa non implica necessariamente una vera e propria interazione, un dialogo esplicito, un vero e proprio confronto o scontro verbalmente espresso, ma può consistere in rapporti d’interazione vissuti al livello di intercorporeità, nel confronto di punti di vista, taciti o anche costretti al silenzio, presenti anche nell’apparente unità di una sola voce.

È un libro complesso e avvincente, proprio per i diversi livelli di esperienza e di discorso che prende in considerazione, che analizza e interroga, mettendo a fuoco le questioni riguardanti la relazione con l’altro e interpretandole secondo la sua specifica angolatura prospettica, dandone sempre una lettura senz’altro originale, ma senza la presunzione di trovarvi sempre una risposta.

All’inizio avevo trovato abbastanza sorprendente l’affermazione di Szasz che “la malattia mentale non esiste”, poi mi sono resa conto che, in effetti, in questo caso, è proprio il termine “malattia” che è fuori posto e che trae in inganno, dato che, come egli osserva, la malattia si predica del corpo e quindi, quando parliamo di “malattia mentale”, applichiamo alla “mente” un concetto di tipo fisico; tra l’altro, il concetto stesso di “mente” va messo in questione e chiarito. Quindi, “malattia mentale” è il risultato di un’indebita trasposizione, o se si vuole di una abusata metafora scambiata per un concetto, per giunta scientifico, e occorre anche chiedersi se spesso non si pratichi una distinzione troppo netta e poco attenta tra mentale e fisico, tra pensiero conscio e inconscio, tra vita immateriale – in realtà fin troppo materiale – e corpo.

È certamente da prendere seriamente, comunque si voglia considerare la sua proposta interpretativa della vita e dell’opera di Virginia Woolf, l’indicazione da parte di Szasz che si debba spostare l’attenzione dall’individuo isolatamente considerato ed esaminato all’interno della sua “conformazione fisico-mentale” – con la pretesa di pervenire a una sua classificazione e a un giudizio, fatti passare per giunta per “scientifici” – alle sue relazioni, al contesto dei suoi rapporti con gli altri. Il testo, non solo l’opera, ma anche la vita di Virginia Woolf, va letto nel suo contesto, da ricercarsi pur sempre nella parola, nella scrittura, pubblica (come i suoi romanzi) o privata (come le lettere e il diario); nella parola sua o in quella della “testimonianza” altrui, ma pur sempre nella parola, e non in quale luogo fuori di essa, nei “fatti”, come se essi non facessero valere la loro “verità” pur sempre attraverso la parola. Questo è un punto di fondamentale importanza che investe la questione dell’identità, e che richiede lo spostamento dell’attenzione dall’individuo – come entità pre-configurata, definita, come entità monologica, integra, compatta, quindi identificabile e classificabile – alla relazione, alla parola, all’interpretazione, alla lettura, al progetto, alla vita, al viaggio, con tutta la problematica di tipo semiotico e specificamente cifrematico del rapporto fra segno interpretante e segno interpretato, fra il segno e l’altro segno che lo interpreta, dove questo segno che interpreta può essere sia un’altra voce di me, un’altra voce fra le tante mie voci, sia la voce dell’altro da me, l’altro esterno, in un dialogo continuo.

Szasz non usa il termine “dialogico” o “dialogizzato”, per caratterizzare questa situazione. È un termine che riprendo nell’accezione di Michail Bachtin, il filosofo russo che, attraverso l’analisi dell’opera di Dostoevskij e Rabelais, ha sottolineato la natura plurilinguistica, multiaccentuata, polilogica dell’identità, ne ha evidenziato la sua interna e costitutiva alterità, le sue interne molte voci. Non è casuale il ricorso, anche da parte di Szasz, alla scrittura letteraria, perché essa è particolarmente attenta alla parola nei confronti della quale si pone in posizione di ascolto, lasciandole tutto il tempo di dirsi in tutta la sua complessa alterità. Qui, ciò che per la logica è “contraddizione” diviene la sua modalità consueta; è semmai “discordanza”, “polifonia”, incontro di parole, che non sono già date fuori dal loro incontro. Szasz nota la “contraddizione” tra la Virginia autrice di Mrs. Dalloway, che critica la figura dello psichiatra, e la Virginia che nella realtà si sottopone alle cure psichiatriche. Una “contraddizione” che è la risultante, in questo caso, di un’ulteriore complicazione, di un’ulteriore dialogizzazione della parola, della “parola della vita” con la parola dell’“arte verbale”, della scrittura letteraria.Nella prospettiva assunta da Szasz nel suo libro, resta un limite, anche questa una “contraddizione”, una discordanza nella “sua” parola: la sua insistenza sul concetto di “agente morale”. Mentre da una parte egli mostra quanto sia sfaccettata l’identità e come di fatto consista in una pluralità di voci, che ne richiedono l’apertura e la disposizione all’ascolto – l’importanza dell’ascolto è inscritta nella relazione: come riuscire a sopravvivere, a vivere, a costruire, a relazionarmi all’altro, se non ascoltando? –, dall’altra, insiste in maniera un po’ troppo ossessiva sul concetto di “agente morale”, dunque di padronanza, di controllo sui propri atti, sulla propria vita, sugli eventi e sulle cose, controllo sulla parola, che è proprio ciò che ne impedisce l’ascolto. Impossibile e deleterio il controllo. Come diceva Lévinas, l’identità è come un sacco bucato. La libertà è della parola, come nota Armando Verdiglione nel suo recente libro La libertà della parola (Spirali).