IL BRAINWORKING GEOPOLITICO

Qualifiche dell'autore: 
docente di Economia all’Università di Ginevra e all’Università Autonoma di Madrid

La nozione di lavoro in economia sta cambiando. Occorre ormai distinguere tra un lavoro puramente strumentale, nel quale un determinato sforzo umano è messo in relazione con un risultato produttivo, e un lavoro in cui la produttività s’identifica con l’apporto umano e ciò che viene prodotto è un servizio personale. Questa è la nozione di lavoro-prodotto, che deriva dalla trasformazione della produttività per l’introduzione di criteri qualitativi. È il prodotto che qualifica il lavoro. Partendo da questa idea, ci sono grandi categorie di attività che possono essere considerate come lavoro-prodotto, per esempio, l’attività del ricercatore, in tutti i tipi di scienze, il cui lavoro è di per sé un prodotto. Allo stesso modo, il lavoro dello psicologo sarà misurato semplicemente dalla sua attività. Anche l’imprenditore non fa un lavoro veramente strumentale, perché sviluppa attività che hanno valore di per sé. C’è poi un ambito in grande espansione per il lavoro-prodotto, quello di coloro che chiamerei i lavoratori della solidarietà, i quali si muovono non per ragioni di profitto, ma per avvicinarsi agli altri e aiutarli. E, infine, c’è un quarto gruppo, che ho chiamato il gruppo dei brainworkers, ovvero coloro che risolvono i problemi della società, anche se l’elaborazione della cifrematica ha dato a questa parola una dimensione che va al di là di quella del problem solver, portandola a includere tutte le altre funzioni del lavoro-prodotto. Il brainworker è imprenditore e ricercatore, è solidale e risolve i problemi. E, dunque, il brainworking non è più soltanto un problem solving (soluzione dei problemi concreti del sistema), come avevo pensato io inizialmente , ma piuttosto un problem solving a livello della vita e di ciò che in cifrematica è chiamato il “dispositivo dell’impresa”, e che è in linea con i primi due cervelli di cui scrive Machiavelli: “E perché sono di tre generazione cervelli: l’uno intende da sé, l’altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri; quel primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile.”

Ricorderò, en passant, che il terzo cervello di Machiavelli, quello che non intende né sé né gli altri, corrisponde veramente al lavoro strumentale, che si svolge in una situazione di schiavitù, più o meno consapevole, ma comunque di alienazione.

Baumol, introducendo questa differenza tra lavoro-prodotto e lavoro strumentale, diceva anche che la società crea le opportunità e il sistema dei compensi. Voleva dire che se si approfitta bene di un’opportunità, la società dà un compenso, che può consistere in soldi, ma anche in prestigio o potere. Egli indicava, tra l’altro, che nella storia dell’umanità ci sono momenti in cui le opportunità e i compensi si trovano in luoghi differenti. Secoli fa, se si voleva essere riconosciuti e avere potere, occorreva andare nella chiesa, come struttura istituzionale, o nell’esercito. Con l’11 settembre, si constata, nella società moderna, la presenza di opportunità per il terrorismo e la violenza che offrono un altro tipo di compenso. Ci sono brainworker del terrorismo, come Bin Laden o altri, e ci sono lavoratori strumentali della violenza, perché non c’è nulla di più strumentale di uomini che guidano un aereo per andare a morire. Dunque, ai lavoratori, l’11 settembre fa vedere questa nuova situazione, questa nuova opportunità dalla parte del terrorismo, ma fa anche intravedere nuove opportunità per il brainworking di altro tipo. Per esempio, dopo l’11 settembre a me pare che l’asse del mondo si sia spostato dal Giappone e dal Pacifico verso l’Europa e il Mediterraneo. Il movimento verso l’Atlantico si sposta sul Mediterraneo e ho l’impressione che, in questo momento, il Mediterraneo sia fonte di grandi problemi, ma anche di grandi soluzioni. Dunque, fonte di grande brainworking.

Dal punto di vista dell’economista, la situazione in Mediterraneo è assolutamente deludente perché tutti i modelli che abbiamo provato sono falliti. Il primo modello è stato quello della colonizzazione. Abbiamo colonizzato parte del Mediterraneo per imporre i nostri valori e la nostra forza. Ma la colonizzazione è fallita.

Successivamente, ci siamo rivolti al modello dell’aiuto. Siamo andati in aiuto, probabilmente per il senso di colpa d’aver avuto qualche responsabilità in quella zona. Non è cambiato assolutamente nulla. Poi, a metà degli anni Novanta, ci siamo inventati qualcosa di molto interessante, l’idea di mercato. L’accordo di Barcellona, nel 1995, ha lanciato l’idea di un grande mercato commerciale nel Mediterraneo, un mercato senza frontiere e con meccanismi di appoggio, come la banca europea. Sei anni dopo, questa idea è fallita. Nessuno, né nel sud, né nel nord, sembra interessato alla soluzione di mercato.

Bisogna, dunque, cercare altre soluzioni. Io penso, da economista, che il mercato sia senz’altro una buona soluzione, ma penso anche che non ci sia mercato senza contratto sociale. Non c’è mercato che non abbia alla base un contratto sociale che crea quello che gli inglesi chiamano il level playing-field (il campo di gioco). C’è bisogno di un campo di gioco sul quale si giochi al mercato. Se manca, il mercato è semplicemente un disastro. Il campo di gioco è un contratto sociale. L’approccio contrattuale, in cui tutte le parti in causa intervengono per creare il level playing-field, crea le condizioni per le soluzioni dei problemi, una delle quali è il mercato. Si tratta, cioè, di centrarsi su obiettivi e assumere tutti insieme la responsabilità di andare verso quegli obiettivi. Nel caso del Mediterraneo, esistono possibilità enormi per un approccio contrattuale.

Ci sarebbe, intanto, da fare un contratto per la pace che stabilisse veramente il ruolo di Israele come motore tecnologico e economico della zona. C’è già una piccola enclave economica di industriali, intorno a Israele, in cui sta per essere approvata questa idea. Tutto questo va stabilito contrattualmente, bisogna fare un contratto per la pace.

Poi, bisogna fare un contratto per il petrolio. In Europa, non possiamo continuare a vivere in questa situazione d’incertezza legata al petrolio. Inoltre, occorrerebbe un contratto per l’acqua, perché tante grandi società sono interessate ai problemi dell’acqua che coinvolgono un grande numero di città con più di un milione di abitanti, nel Nord Africa e nel Medio Oriente. In questo caso, sarebbe interessante mettere insieme le compagnie che curano la distribuzione urbana dell’acqua, che sono multinazionali vere e proprie, con le compagnie per la costruzione di acquedotti, con le OMNG (interessate a far sì che non si distruggano zone intere per creare bacini d’acqua), con i governi e le città. C’è, dunque, la possibilità di creare un business intorno all’acqua.

Lo stesso vale per l’ambiente e per l’agricoltura, ma, in quest’ultimo caso, occorrerebbe un contratto serio in cui l’Europa facesse in modo che una parte dell’attività agricola che la riguarda fosse integralmente prodotta nelle altre zone del Mediterraneo. E, ancora, occorrerebbe un contratto demografico, che regolamentasse le questioni dell’immigrazione. Poi, un contratto per lo scambio culturale e artistico. Con tutto questo, intendo dire che ci sono grandi opportunità per il brainworking geopolitico, in un mondo globalizzato, perché inventare o reinventare la nozione di contratto è un’importante attività di brainworking. Nessun problema è così difficile da essere impossibile. Occorre il primo cervello di Machiavelli per intendere e il secondo per agire. Con l’arrivo dell’euro, abbiamo raggiunto e portato a termine, in Europa, un grande obiettivo, quello dell’integrazione monetaria, e ci stiamo muovendo verso il nuovo obiettivo dell’integrazione politica, la più essenziale per i nostri popoli. Ora, dunque, dobbiamo affrontare le nuove sfide e il Mediterraneo è la nuova sfida per l’Europa.