CHI HA PAURA DELL'INTEGRAZIONE?

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nel discorso comune, l’integrazione viene scambiata spesso con l’inserimento, il coinvolgimento, il completamento. Il termine “integro” viene inteso come ciò che è completo, indiviso, totale, addirittura puro. Così l’integralismo, il colmo della purezza, diviene quasi l’opposto dell’integrazione. E, spesso, l’integrazione viene temuta da chi ha paura di perdere la propria integrità.
L’integrità può venir meno? No, se risulta virtù del principio della parola, non del soggetto. Integra è la parola, proprio in quanto non può essere confiscata, lesa, abolita. E integro risulta ciascun elemento nella parola. Quel che si dice non si tocca, non si manipola, non manca di nulla. Nulla si contamina nella parola: questo teorema dell’integrità è la base perché l’integrazione non venga intesa come cancellazione della specificità di ciascuno. In virtù di questo teorema, non c’è nulla da evitare nell’incontro, nella vendita, nello scambio. Nulla da preservare, nessun tabù del contatto. Integrità: le cose non si mescolano. Ecco un’accezione non religiosa e non fobica del “Noli me tangere”. La parola è senza purismo.
Se viene intesa come assimilazione, unificazione, sistematizzazione, l’integrazione fa paura. Invece, l’integrazione procede dal contrasto e dalla contraddizione: se li risolvesse nella concordia e nell’appianamento, toglierebbe la dualità, l’apertura, risultando segregativa. Il sistema è unificante, l’integrazione procede dal due, non dall’uno, e non deve giungere all’unità, all’unificazione: solo così la globalizzazione non diventa universalismo o imperialismo. L’integrazione non può nemmeno essere confusa con l’imposizione di un’identità propria o con l’assunzione di un’identità altrui. Come nota Carlo Sini nel suo articolo, l’integrazione esige la differenza, esige che l’Altro non si sovrapponga al Sé: sarebbe l’inquadramento, il rapporto sociale, che toglie il pleonasmo, la complessità, il superfluo. Nell’indifferenza.
L’idea che l’integrazione sia una semplice trasmissione di un catalogo di competenze, di norme e di valori, attraverso cui una società riproduce se stessa, presuppone valori già dati, che si fondano su ciò che è stato. Ma importano i valori del passato o i valori dell’avvenire? La memoria come esperienza ha l’avvenire, non il passato, dinanzi. Se i valori non si fondano su ciò che è stato ma su ciò che diciamo, facciamo, scriviamo, la società procede per integrazione, non per trasmissione riproduttiva. L’idea di riproduzione poggia sull’idea di fine del tempo, dunque di fine delle cose. Se il tempo non finisce, l’integrazione va in direzione della qualità, del valore assoluto, non è la somma dei valori da trasmettere.
Come indicano gli apporti in questo numero della rivista, in particolare quelli degli imprenditori, l’integrazione non può essere una finalità, è una proprietà della procedura. Nella parola, le cose procedono per integrazione, cioè dall’apertura e secondo la loro dissidenza, la loro logica particolare, in direzione del valore, della cifra. Se non entrano nella procedura per integrazione, le cose, gli eventi, la novità stessa fanno paura, angosciano, suscitano panico, per cui l’impresa, come ciascuno, si paralizza.
Altra cosa, questa procedura, dall’integrazione dei diversi nell’uno, secondo il modello francese, che è fallita perché non è integrazione, è pluralità sotto l’egida di uno spazio neutrale, lo Stato, in cui idealmente avverrebbe l’unità dei diversi. Il diverso è la rappresentazione dell’Altro negato. Ma, tolto l’Altro, l’integrazione diventa sinonimo di normalizzazione, di conformismo e del suo colmo, l’anticonformismo. Così, la convivenza sociale, che è un rimedio all’integrazione, avviene a patto di un compromesso sociale che toglie la differenza e la varietà irrappresentabili e che non rientrano nel sistema. Questo appiattimento populistico viene chiamato multiculturalismo.
L’integrazione degli elementi nella famiglia, nell’impresa, nella società esige che famiglia, impresa e società si costituiscano come dispositivi pragmatici, temporali, non come sistemi escludenti o includenti l’Altro. “Questo non posso farlo, non l’ho mai fatto prima”; “sto facendo questo, non posso fare quello”: questi enunciati provano come l’eliminazione del terzo – che comporta la paralisi dell’esperienza – proceda dal principio di elezione e di selezione. Nella procedura per integrazione, nulla è da escludere o includere, da rifiutare o da selezionare: occorre che ciascuna cosa che interviene nel nostro itinerario risulti un apporto per il profitto, vada in direzione della qualificazione e della valorizzazione. E non c’è niente a cui tornare: sarebbe l’idea di salvezza. La procedura senza integrazione è la procedura con l’idea di salvezza e quindi con l’idea che dinanzi stia l’alternativa positivo negativo, per cui il nostro viaggio sarebbe costituito come economia del negativo.
L’unicità non è per natura, per nascita o per razza. All’unicità si giunge, procedendo per integrazione dei vari elementi che incontriamo nel nostro viaggio. Così, ciascuno diviene caso di qualità, cioè unico.