IL VALORE DEL PATRIMONIO INTELLETTUALE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Di ritorno da Shangai, dove TEC Eurolab ha già un ufficio di rappresentanza da un anno e all’inizio del 2012 inaugurerà il suo primo laboratorio, può dirci qual è la percezione che il mercato cinese ha dell’impresa italiana?
Il prodotto italiano ha un valore aggiunto apprezzato in tutto il mondo, Cina compresa. Visitando laboratori come il nostro, ho potuto constatare direttamente che anche nell’innovazione tecnologica possiamo reggere benissimo il confronto. Alla fiera a cui abbiamo partecipato abbiamo incontrato imprenditori italiani che al rientro si sono messi in contatto con noi, e questo può essere un indice dell’esigenza di attivare forme di solidarietà, se non di collaborazione, fra imprese italiane che hanno prospettive di sviluppo in Asia, ma non solo. Un dato significativo di cui tenere conto è che le aziende del nostro territorio che in questi anni di crisi hanno trovato sbocchi nei mercati emergenti non hanno problemi economici, quindi ci auguriamo che il processo d’internazionalizzazione possa proseguire sempre di più, soprattutto in vista del fatto che le criticità in area euro non accennano a diminuire, anzi. Allora l’impresa italiana ha ancora molte carte da giocare all’estero.
Proprio con questo numero del giornale, incominciamo a scrivere la carta intellettuale delle imprese con quelle aziende che hanno puntato al valore assoluto e non si sono limitate al profitto finanziario…
Certo, la carta intellettuale di un’impresa deve scrivere qual è il suo valore non limitato al prezzo di vendita sul mercato in caso di liquidazione o di acquisto quote da parte di un socio potenziale. Ma quanti sono oggi coloro che non calcolano il valore dell’impresa basandosi sul MOL (margine operativo lordo) o sull’EBIDTA (utile prima degli interessi passivi, imposte e ammortamenti su beni materiali e immateriali)? Purtroppo sono ancora molti coloro che traducono tutto, anche il capitale intellettuale, in numeri che esprimono il valore in denaro. Questo vuol dire che il resto del valore, il patrimonio intangibile dell’impresa – le idee, le persone e le loro relazioni, le stesse relazioni con i clienti, la conoscenza del mercato – ha valore solo per chi la vive o per chi ambisce a lavorarci perché trova un ambiente favorevole per esprimere e sviluppare i propri talenti, ma anche per la propria crescita personale. Ammettiamo che l’impresa valga solo denaro, in un mondo in cui il denaro è l’unica cosa che conta. Ma come fare quando, come sta succedendo in questi giorni, arrivano i sacerdoti del dio denaro per annunciare che dio è morto, che non c’è più denaro nelle loro casse, che non possiamo aspettarci l’anticipo sulle ricevute bancarie, nonostante il nostro rating sia in classe AAA? Come siamo giunti al punto in cui la finanza rischia di mettere in crisi persino il proseguimento di aziende che hanno fatto sforzi sovrumani per risollevarsi dal disastro che essa stessa aveva provocato alla fine del 2008? La carta intellettuale esige che anche la finanza s’interroghi sulle responsabilità che ha verso chi produce e che introduca regole ferree nel proprio operato. Non è più ammissibile pensare che tutto sia in mano a quattro scalmanati che si mettono insieme per arricchirsi: le istituzioni facciano la loro parte, come la fanno, fin troppo, quando mettono lacci e lacciuoli all’operatività delle imprese, soprattutto nel nostro paese. 
Se la Francia è governata da duecento famiglie e il Giappone da dieci, l’Italia è il paese delle corporazioni, i cui interessi non sono mai stati intaccati da nessun governo…
Quanto potremmo guadagnare dalla liberalizzazione delle professioni, se eliminassimo queste barriere medievali che non hanno alcuna utilità per la vita civile? Basti pensare che nel nostro paese c’è solo un 30 per cento di popolazione produttiva, mentre un altro 30 per cento stabilisce le regole con le quali l’altro 30 per cento deve creare valore e si preoccupa di mettere paletti all’interno di realtà in cui non ha neppure idea di ciò che accade. Intanto l’imprenditore non ha una corporazione che difenda i suoi interessi e deve combattere da solo gli assalti della concorrenza, anche quando è palesemente sleale. Purtroppo, le stesse associazioni che dovrebbero rappresentare gli interessi delle imprese e contribuire a scrivere la carta del valore intellettuale sono impegnate a sostenere gli argomenti di cui si discute ai tavoli in cui l’interesse principale non è per la cultura d’impresa, ma sempre ed esclusivamente per il dio denaro, in forme diverse: ammortizzatori sociali, retribuzioni, contratti, regolamentazione delle pause durante l’orario di lavoro, tutto secondo l’equazione per cui il tempo è denaro. Invece sarebbe auspicabile comunicare all’esterno delle aziende il patrimonio intellettuale che le contraddistingue, perché nel nostro territorio non manca, e fare in modo che sia riconosciuto come valore aggiunto di un approccio che non contrappone l’impresa al servizio sociale, anzi, la cultura meritocratica, attenta alla persona, a cui dà l’opportunità di crescere con l’azienda, è fortemente sociale.
L’economista Emilio Fontela diceva che il brainworker non divide la sua giornata in un tempo per il lavoro, uno per lo svago, uno per la famiglia… 
Se crediamo che il tempo sia denaro, rischiamo di vivere a compartimenti stagno. Il lavoro è vita e ciascuno è vivo anche mentre dorme e a volte sogna anche mentre sta facendo qualcosa al lavoro: a volte il lavoro richiede concentrazione, ma nell’arco della giornata si compiono tante azioni semiautomatiche in cui il pensiero va alle vacanze, al fine settimana, all’amore; altre volte invece può capitare che in autobus o durante una partita a calcetto arrivi un’idea da applicare il giorno dopo al lavoro. E che cosa facciamo, la respingiamo perché non siamo nell’orario di lavoro? Se vogliamo scrivere la carta intellettuale, dobbiamo incominciare a mettere seriamente in discussione i compartimenti stagno.