UN ANONIMATO STRUTTURALE

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

“Prima di tutto è necessario che si uniscano in coppie gli esseri che separatamente non sono in grado di sussistere, come la femmina e il maschio al fine della riproduzione […] e chi per natura comanda e chi obbedisce per poter sopravvivere”. Con queste parole Aristotele, nella Politica, trae un’equazione con due similitudini: omologa la coppia maschio-femmina con quella padrone-schiavo e giustifica queste coppie con un’esigenza di sopravvivenza, da cui dipende la necessità della riproduzione. E, più avanti, esplicita: “Il maschio è per natura più adatto al comando della femmina”, motivando: “Nella maggior parte dei casi vi è chi per natura comanda e chi è comandato. Diversi sono i modi di comandare del libero allo schiavo, del marito alla moglie, dell’adulto al fanciullo; in tutti sono presenti le parti dell’anima, ma non allo stesso modo: lo schiavo è del tutto sprovvisto della facoltà deliberativa, la donna la possiede, ma priva di capacità decisionale, e nel fanciullo è presente, ma ancora incompiuta”. Del resto, come potrebbe la donna avere “capacità decisionale” se, come aveva scritto nella Generazione degli animali, “Il maschio fornisce la forma e il principio del mutamento, e la femmina il corpo e la materia”, con tutti i limiti che anche Aristotele, per non parlare di Platone, poneva al corpo e alla materia?

Potremmo dire che, dopo oltre duemilacinquecento anni di filosofia e tanti anni di femminismo, queste affermazioni fanno sorridere, tanto ci sembrano arcaiche. Certamente, nessuno può più considerare una donna al pari di uno schiavo e oggi alcune donne, anche se non molte, hanno raggiunto posti con responsabilità decisionali, per esempio nella magistratura e in Confindustria, oppure a capo di ministeri, in Italia, o di governi, altrove. Eppure, non vi sono donne che presiedano banche o altri centri di potere finanziario, guarda caso proprio in quest’epoca in cui la finanza sembra farla da padrona. Insomma sembra proprio che alla donna venga riconosciuta una facoltà deliberativa, ma anche un’assenza di capacità decisionale, come esigeva Aristotele. E quanti sedicenti esperti in materia di coppia – come quelli citati nel suo articolo da Carlo Sini – non confermerebbero, magari presentandole come acquisizioni della psicologia moderna, queste formulazioni aristoteliche tratte dalla Storia degli animali: “Le femmine sono più dolci e più maliziose, meno sincere, più impulsive e più preoccupate di nutrire i figli; i maschi, al contrario, sono più animosi e più rudi, più diretti e meno astuti […]. Per questo la donna rispetto all’uomo è più sensibile alla pietà e più facile al pianto; e inoltre è più gelosa e più pronta a lamentarsi, più incline alla polemica e allo scontro”? E talora sono le donne stesse a avallare questi stereotipi.

La questione è che, dall’antica Grecia, il discorso occidentale ha sfumato le sue posizioni misogine e ha fatto concessioni, ma non ha messo in questione i propri fondamenti, in particolare il suo assillo nel definire le donne, nel dare loro un’identità. Del resto, il principio d’identità è il fondamento della logica aristotelica, base del discorso occidentale. Questo discorso, che è la filosofia greca diventata luogo comune, costituendo la categoria donna, deve assegnare un nome alla differenza e alla varietà, da cui è assillato: la differenza è diventata differenza di genere. Partendo dal primato del visibile, il discorso occidentale ha postulato le donne come rappresentazione della castrazione, per isolare, gestire, padroneggiare, ripartire in due sessi la differenza. Per questo, collocare le donne risponde a una preoccupazione del discorso politico, ai tempi di Aristotele come ora: dove, come, quando, in quale scranno, in quale ruolo, come addomesticarle, come recuperare la loro presunta negatività, la presunta evidenza della castrazione. Come può darsi establishment senza addomesticare la donna, senza farla diventare protagonista del conformismo e, anziché ostacolo al successo, il suo strumento? Nel regno dell’evidenza e dell’illuminazione, l’educazione femminile viene vista come il passaggio alla femminilità, attraverso la coscienza della differenza degli organi: la differenza  anatomica, intesa come biologica e organica, e non come sessuale. Differenza dei sessi, la tollerabile sessuazione umana: la divisione sessuale si fa divisione algebrica, con il quoziente, con la quota, con la quota rosa, per parificare la differenza dopo averla rappresentata.

La donna da occupare, la donna occupata, la donna che lavora, la donna come figura professionale, la donna come ruolo sociale: ogni buon politico apre la sua agenzia di collocamento, di messa in quota delle donne, per tacitare la questione donna. Questione che può intendersi solo come questione della struttura della parola, questione che esige l’ascolto, non la visione né la rappresentazione. La sessualità può essere rappresentata in generi solo se non dipende dalla parola, ma dalla fisiologia, solo se, presunti senza parola, gli umani vengono animalizzati: per questo Aristotele spartiva gli umani in maschi e femmine, come gli animali. E dalla quasi totalità del primato dei maschi sulle femmine tra gli animali (fanno eccezione, secondo lui, l’orso e la pantera) traeva la naturalità del comando dell’uomo sulla donna, mostrando come il riferimento a una presunta natura risulti convenzionale, se non ideologico. Ridotta a differenza di generi, la sessualità, e con essa la donna, trova il suo scopo nella generazione, intesa come riproduzione della specie. È lungo questa via che alla donna spetta la riproduzione, non la produzione, la conservazione, non l’invenzione, la materialità, non l’astrazione.

Qual è uno statuto delle donne che non resti nella logica aristotelica, divenuta discorso comune? Mettendo in questione il principio aristotelico d’identità, da cui discende quello dell’identità di genere, la cifrematica pone la questione donna come questione della differenza nella parola, non tra soggetti. Non esiste identità sessuata nella parola, non c’è la parola di donna, e nemmeno di uomo. Già con Freud la castrazione non è il segno delle donne, è la funzione di rimozione nel linguaggio, l’impossibilità di padroneggiare la parola, di dire tutto, di dire quel che si pensa. Impossibile dire il senso, dire il sapere, dire la verità, impossibile dissipare l’equivoco, la menzogna, il malinteso strutturali: ecco la questione donna. Lungo il sentiero della rimozione, impossibile dare un nome alle donne, per cui è impossibile fondare l’identità rappresentando la differenza: questo anonimato strutturale, a cui accenna nel suo articolo Caterina Giannelli, è l’apporto delle donne alla civiltà. Infatti, solo se il nome non è assumibile, se la differenza non è rappresentabile, possono instaurarsi la cultura come invenzione, la tecnica come arte e l’impresa del tempo, senza accumulazione e fine delle cose. In particolare, in assenza del principio d’identità, la differenza non è stabilita dalla diversa anatomia o dalla diversa soggettività, ma dipende dalla parola, dal fare, dalla scrittura. Differenza non oggettiva o soggettiva, bensì temporale: la divisione, il taglio non è spartizione o frazione tra umani, è taglio del tempo, del tempo nella parola, del tempo del fare. Il tempo è nel fare. Nessuna produzione, nessuna invenzione, nessuna arte senza questa divisione che non è tra soggetti, ma temporale, Questa divisione che la donna non può significare è la base dell’impresa, che allora non poggia più sulla differenza di classe o di genere, ma sul fare di ciascuno. Lo sottolinea anche l’etimo di differenza, che, come nota Anna Spadafora, viene dal latino fero, “portare”, anche nell’accezione di “produrre”. Questa differenza inassumibile comporta la produzione, l’innovazione, la qualificazione, non la riproduzione dell’identico, del simile, dell’analogo, che è il risultato, ideale, della differenza di genere.

Le donne non sono un genere, non sono naturali. L’apporto delle donne all’impresa e alla società non sta allora nelle loro presunte facoltà soggettive, nella loro presunta differenza, ma nel non aver bisogno di costituirsi come categoria, come classe, come insieme, come genere. Le donne in quanto tali non esistono, altrimenti sarebbero l’alternativa, più o meno riuscita, degli uomini, sarebbero il genere oppositivo o complementare del presunto insieme degli uomini, “che separatamente non sono in grado di sussistere”, scrive Aristotele.

La questione della nominazione esige la questione donna, questione strutturale, quindi scritturale, questione dell’arte e della cultura, fino all’enigma della differenza sessuale. Non c’è più significazione della differenza, e uomo e donna non sono segni della differenza. Con la differenza nella parola, il tempo non finisce, le cose non significano, ma si strutturano, si scrivono e si valorizzano. Con la questione donna, s’instaurano il rinascimento della parola e la sua industria, anche la casa industria, anziché il domestico della casa, anziché il domestico dell’industria. Ciascuna cosa si valorizza perché entra nell’intellettualità, non viene più valutata secondo la sua visibilità, credibilità, identità. La questione donna è la questione dell’itinerario intellettuale, la questione del viaggio verso la cifra.